Verso il 25 aprile. Tre preti luminosi e antifascisti
Ci si avvia verso il 25 aprile, il giorno della liberazione nazionale dall’oppressione nazifascista. È importante allora ripercorrere tre vite di tre maestri di vita e di lotta, sacerdoti molto diversi tra loro ma tutti accomunati dal coraggio, dal desiderio della bontà e della giustizia.
DON GIOVANNI MINZONI, «MARTIRE PER LA LIBERTÀ DI EDUCARE»
In principio ci fu don Giovanni Minzoni. Nato a Ravenna nel 1885, parroco di Argenta, un paesino nella bassa romagnola, è tra i primi sacerdoti ad opporsi alle violenze del fascismo. Seguace dello spirito della Rerum novarum, che chiedeva condizioni di vita e di lavoro più umane per operai e contadini, si oppone fin da subito ai soprusi delle squadre fasciste e fonda organizzazioni educative frequentate da antifascisti, come l’Associazione dei Giovani Esploratori Cattolici.
Uno dei suoi primi strappi pubblici con il fascismo avviene con la ferma condanna dell’uccisione del sindacalista socialista Natale Gaiba del 7 maggio 1921. Seguono minacce ripetute che non sortiscono effetto. Minzoni non si piega e continua a spargere la sua voce di critico popolare antifascista, che mantiene importanti rapporti anche con le cooperative “bianche”.
E così, la sera del 23 agosto del 1923, alcuni squadristi facenti capo al ras Cesare Balbo, tendono un agguato a don Minzoni, all’angolo di un vicolo buio. Lo colpiscono con un bastone. Don Minzoni muore a seguito di quei colpi.
La sua testimonianza religiosa, politica e spirituale, di «martire per la libertà di educare», come ha scritto Nicola Palumbi in un libro ormai fuori catalogo (Don Giovanni Minzoni. Educatore e martire) si può leggere nelle pagine del suo diario, ristampate dopo il primo lavoro di Lorenzo Bedeschi uscito per Morcelliana nel 1965, sotto il titolo di Memorie. 1909-1919 a cura di Rocco Cerrato e Gian Luigi Melandri.
«Attendo la bufera» ha scritto – «la persecuzione, forse la morte per il trionfo della Corona di Cristo. La religione non ammette servilismi, ma il martirio».
Il 2 ottobre 1983 Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica, lo ricorda così: «Nella figura di don Giovanni Minzoni si riassume il meglio delle tradizioni ideali e politiche nelle quali il movimento cattolico italiano affonda le sue stesse radici genuinamente popolari. Con la sua stessa vita, Don Minzoni testimoniò, in perfetta aderenza all’insegnamento evangelico e in profonda lealtà alla propria missione di pastore, la fede democratica e l’ansia di giustizia che ispirava i lavoratori cristiani, che ne saldava l’animosa resistenza alla lotta che l’intero movimento antifascista andava opponendo all’incombente tirannide».
PADRE GIUSEPPE GIROTTI, MARTIRE «IN ODIO ALLA FEDE» A DACHAU
Padre Giuseppe Girotti, nato ad Alba nel 1905, era un appassionato biblista. Dopo aver studiato a Torino e all’École biblique di Gerusalemme, si era specializzato nella lingua e nella cultura ebraica. Proprio a Torino, diviene insegnante al seminario teologico domenicano e attivo nell’azione caritativa presso “L’Ospizio dei poveri vecchi”. Il regime, a causa del suo spirito libero e anticonformista, comincia a sorvegliarlo, poi a minacciarlo. Nel 1939 viene estromesso dall’insegnamento e allontanato nel convento di San Domenico.
È dopo l’armistizio, dell’8 settembre 1943, e la nascita della Repubblica Sociale Italiana, che la sua vita cambia definitivamente direzione. Padre Girotti inizia un’importante attività di sostegno a favore della resistenza, tenendo contatti con partigiani e prodigandosi, soprattutto, per la protezione e la fuga, attraverso nascondigli sicuri e documenti di identità falsi, degli ebrei perseguitati dai nazifascisti. Tra di loro salva Emma De Benedetti e la madre di lei, trovandole un rifugio in un convento a Torino, mentre al padre procura una carta d’identità falsa. E proprio grazie al contatto di Emma riesce ad avvertire in tempo decine di ebrei prima dell’arresto, come avviene all’avvocato Salvatore Fubini.
A causa di una delazione, tuttavia, viene arrestato dai fascisti il 29 agosto 1944. Imprigionato a Torino, è trasferito a San Vittore, a Milano, e poi al campo di Bolzano–Gries. Da lì, il 5 ottobre del 1944 viene trasferito a Dachau. Nel lager che più di tutti ha segnato la persecuzione della Chiesa europea, se si pensa che dal 1939 al 1945 ben 2.794 sacerdoti, compresi alcuni vescovi, vi sono stati internati, Girotti vi trascorre meno di sei mesi. Il 1° aprile 1945, infatti, dopo essersi ammalato, muore forse in seguito a un’iniezione di benzina. 28 giorni dopo, il 29 aprile 1945, gli alleati sarebbero entrati nel campo.
Angelo Dalmasso, altro sacerdote che ha condiviso con lui l’internamento a Dachau, ha testimoniato che «sulla sua cuccetta i suoi compagni scrissero: Qui dormiva San Giuseppe Girotti».
DON RAIMONDO VIALE, IL «PRETE GIUSTO»
Don Raimondo Viale (1907-1984), nato a Limone, tra le montagne delle Alpi Marittime, è stato un prete povero. Passata l’infanzia nei campi del Cuneese, diviene sacerdote della parrocchia di Borgo San Dalmazzo. Guidato più dall’istinto che da una coscienza politica, prende posizione contro il fascismo e la guerra sul bollettino parrocchiale che dirige. Tra la fine del 1936 e l’inizio del 1937 i fascisti di Borgo bloccano la pubblicazione per propaganda antinazionale. Riesce poi a sfuggire più volte a pestaggi.
Ma è il 2 giugno 1940 che si consuma lo scontro. Dal pulpito della sua chiesa, stracolma, Viale pronuncia queste parole: «Speriamo che la guerra si faccia solo a parole, come sta avvenendo. Perché se la guerra si facesse sul serio, noi dovremmo condannarla senza condizioni». Alla fine della predica, due fascisti molto noti escono dalla chiesa e alla fine della processione, lo stesso giorno, è arrestato. La pena è il confino ad Agnone, in Molise, da cui torna solo più di un anno dopo.
Come per Giuseppe Girotti, arriva l’8 settembre. Nel cuneese l’oppressione è fortissima ma soprattutto, tra il 9 e il 13 settembre 1943 arrivano in Valle Gesso, in fuga dai rastrellamenti francesi, oltre mille ebrei. I nazifascisti si mettono subito all’opera per deportarli ma don Viale, insieme ad altri valligiani, tenta di aiutarli, alcuni sistemandoli presso famiglie amiche. Ne salva almeno una trentina all’inizio, poi, dedicandosi in seguito a soccorrere gli ebrei dispersi, molti di più.
Nel dicembre 1944 è costretto a fuggire. Prima cerca accoglienza nell’Istituto del Cottolengo a Torino, poi all’Istituto dei Salesiani a Milano. In entrambi i casi non viene aiutato. I religiosi hanno paura. Chi lo accoglie, infine, è prima la zia di due partigiani a in via Santa Chiara 20, ancora a Torino, e poi nella casa di un curato nel paesino di Villarbasse, ai piedi della Alpi dove si trova il giorno della Liberazione, il 25 aprile.
La sua storia è raccontata da Nuto Revelli in un libro importante, Il prete giusto, che va oltre il 1945 per abbracciare l’intera vita di don Viale. Anche in seguito, comunque, l’avventura del prete di Borgo San Dalmazzo non è stata facile. Don Raimondo Viale è stato un prete scomodo, tanto che, negli ultimi anni della sua vita, è stato punito dalla Chiesa per le sue posizioni radicali con la pena più umiliante, la sospensione a divinis.
«La resistenza che è una dote dell’uomo maturo, dell’uomo che rifiuta tutto ciò che è ingiusto, e si ribella, si ribella…»
Don Raimondo Viale in Il prete giusto