Birra migrante /1
Storie di birra | 6 (puntata 1/2)
Mesopotamia, Egitto, Cina. Poi tutti i Continenti e in tutto il mondo. La birra, come e insieme all’uomo, è migrante. Da un luogo all’altro, da un contenitore a una bocca, da un fusto a un bicchiere, da una persona a un’altra la birra è migrazione. E avventura. Proviamo solo a immaginare. I chilometri, le miglia, i mari percorsi, le longitudini più lontane… sono pochi gli angoli del globo in cui non sia arrivata.
In America Latina fu con i vascelli e i galeoni che la birra, come la conosciamo noi oggi, migrò. Nel Mondo Nuovo conoscevano solo la chicha, una bevanda leggermente alcolica derivante dalla fermentazione del mais e di altri cereali, ma anche di frutta o manioca; in Europa invece faceva parte della dotazione normale dei marinai, giacché l’acqua imbarcata nei barili andava putrefacendosi presto, e la birra invece restava bevibile un po’ più a lungo.
Così, alla fine del XV secolo, insieme alle malattie che sterminarono i nativi e distrussero le loro civiltà, gli spagnoli ne imposero la fabbricazione nel continente appena scoperto: addirittura già alla metà del XVI secolo, in Colombia, sappiamo che i primi chicchi di orzo coltivati furono impiegati per una produzione di birra prodotta per i Conquistadores. Gli Europei si impadronirono dei campi e li fecero coltivare anche a orzo; poi si spinsero progressivamente nelle foreste inaccessibili fino ad allora, e così fu che anche la birra si diffuse, con gli inglesi e i tedeschi, fino a raggiungere i luoghi più remoti del continente.
Nel periodo coloniale, furono infatti i grandi bevitori del nord i primi a costruire in Argentina, Brasile e Cile birrifici che producevano birra al modo inglese per gli espatriati; e furono i tedeschi, alla fine del XIX secolo, con un doppio scambio davvero straordinario, a portare lo stile lager nelle profondità dell’emisfero australe, in Patagonia, dopo che, probabilmente, era stato proprio un lievito argentino a essere esportato in Europa nel XVI secolo per ibridare un ceppo di lievito europeo e creare il nuovo lievito che faceva fermentare la birra a temperature più basse: procedimento necessario per permettere l’invenzione della lager, il tipo di birra che ad oggi rappresenta più del 90% del mercato mondiale.
La birra europea, in America Latina, emigrò via nave. E con lo stesso mezzo arrivò anche in Oceania, a bordo del Bark di Sua Maestà Endeavour, comandato da quello che sarebbe diventato l’esploratore più famoso tra tutti coloro che solcarono le acque del Pacifico, l’allora tenente di vascello James Cook, che imbarcò per quel viaggio 250 barili di birra (circa 40.000 litri), quarantaquattro di brandy, e diciassette di rum. Dopo il suo primo viaggio intorno al mondo tra il 1768 e il 1771, Cook ripartì con la Resolution alla scoperta della leggendaria Terra Australis. Come per il primo viaggio, nelle stive portava un grande quantitativo di birra, in 19 tini. Che ai 112 uomini d’equipaggio non bastò. Del resto, pare che normalmente a ciascuno dei combattenti sulle navi inglesi ne fossero assegnati ben sette galloni alla settimana, quattro litri e mezzo al giorno. E così fu che il 27 marzo 1773 a Resolution Island, nel Fiordland, in Nuova Zelanda, in base a quello che sappiamo dai diari del capitano, James Cook ordinò al suo equipaggio di produrre birra anche per combattere lo scorbuto a bordo della nave:
«Abbiamo anche iniziato a produrre birra dai rami o foglie di un albero, che tanto assomiglia al nero americano-abete rosso. Dalla conoscenza che avevo di questo albero, e la somiglianza portava all’abete rosso, ho giudicato che, con l’aggiunta di succo ispessito di mosto e di melassa, ne uscirebbe una birra molto sana, e capace di supplire alla mancanza di verdura, che in questo posto non si trova; e l’evento ha dimostrato che non mi sbagliavo».
La nuova tecnica produttiva era particolarmente adatta ai luoghi tropicali: i barili con il composto ribollivano in pochi giorni e rendevano pronta in pochissimo tempo la birra autoprodotta, notevolmente gassata.
Certo, le condizioni culturali non favorirono un immediato sviluppo della birra in Oceania, dal momento che le popolazioni con cui Cook venne a contatto non conoscevano che la Kava, una bevanda non alcolica e leggermente psicotropa, ma non sapevano niente di fermentazione e tantomeno di alcolici: ma proprio dal contatto con gli indigeni e dagli esperimenti con erbe e spezie nacque la produzione di bibite speziate e gassate come la ginger beer, che nonostante il nome è in effetti una bevanda assimilabile a una tonica. E del resto già dai primi decenni del XIX secolo ci stono attestazioni di piccoli birrifici in Australia, in Nuova Zelanda e addirittura a Tahiti.
Oggi in Nuova Zelanda la birra occupa quasi il 65% della vendita totale di alcol nel Paese e la produzione artigianale continua a crescere.
(» continua)
Casa Fogliani è un’officina creativa nata a partire dall’obiettivo di valorizzare risorse e attività e prodotti enogastronomici d’eccellenza, con la possibilità di destinare delle risorse a uno scopo con valore sociale altrettanto eccellente: il progetto intende infatti reinvestire le marginalità realizzate dalle iniziative e con la vendita dei prodotti, tra cui due birre appositamente prodotte per conto della fondazione EDUCatt dal birrificio Argo di Lemignano di Collecchio (PR), in borse di studio, sostegno economico e servizi per studenti in estrema difficoltà.
Per ciascun anno accademico vengono attivati uno o più percorsi di laurea in Università Cattolica a favore di giovani in condizioni di estremo bisogno, di provenienza nazionale e internazionale. I beneficiari verranno sostenuti per tutto il periodo necessario al raggiungimento della laurea – fino a un massimo di cinque anni – e assistiti per agevolare l’ambientamento e lo svolgimento degli studi, con una verifica costante del mantenimento delle migliori condizioni per il raggiungimento del successo. Il sostegno prevede vitto, alloggio, vestiario, assistenza sanitaria, strumenti di studio, contributo economico per le spese quotidiane e il mantenimento, la possibilità di accedere al programma studentwork e tutto quanto è necessario per una vera accoglienza.
«Questa (non) è una birra» è la campagna che nasce per sostenere il progetto: perché la birra Clelia (una cream ale), Elettra (una amber ale) e Alma (una imperial Red in edizione limitata) sono buonissime, ma soprattutto perché acquistandole o consumandole si contribuisce da subito, e concretamente, a un progetto ad alto valore sociale.