Sottobicchieri

Birra migrante /2

Storie di birra | 6 (puntata 2/2)

segue dalla puntata precedente)

Nel continente centro e nordamericano, invece, all’arrivo dei coloni europei i nativi producevano già una birra dal mais: per esempio gli Apache o i Pueblo, o ancora le popolazioni mesoamericane, che la impiegavano in una variante al cacao durante i banchetti celebrativi.
Lo sviluppo successivo, tuttavia, porta l’impronta europea.
La prima storia sulla birra che giunge da quel territorio che sarà poi gli Stati Uniti di oggi è già del 1620, quando la nostra bevanda pare abbia avuto un ruolo essenziale nell’attracco della mitica nave Mayflower a Plymouth Rock. I padri pellegrini (che qualcuno chiamò anche Thirsty Pilgrims, ossia “gli assetati pellegrini”), simboli della prima colonizzazione americana, infatti, salpati verso il Nuovo Mondo in fuga da un’Europa che non li amava, furono costretti a sbarcare nella zona di Cape Cod, in Massachussetts, invece che nella loro destinazione iniziale, la Virginia. Per due motivi: perché si erano trovati fuori rotta a causa del mare grosso e perché la nave era a corto di birra.
Così, il capitano Christopher Jones scelse: per non affrontare il viaggio di ritorno senza birra per l’equipaggio fece sbarcare i pellegrini nel primo approdo disponibile, in modo da avviare la produzione di birra per rifornire il Mayflower. Al proposito, il padre pellegrino William Brandford, guida e poi governatore della nuova colonia, ricorda nei suoi diari che

«i passeggeri erano mandati in fretta a terra perché bevessero acqua, così che i navigatori potessero avere più birra».

In realtà, gli Olandesi in Nordamerica producevano birra già dall’ultimo ventennio del secolo XVI, nella zona del fiume Hudson e a New Amsterdam; ma il primo birrificio dopo quello dei pellegrini fu costruito nel 1665 a New York. Gli Inglesi ne aprirono poi uno a Philadelphia nel 1685, seguito da molti altri piccoli birrifici tra Baltimora, Philadelphia e New York. Poi venne la Guerra d’Indipendenza americana: dal 1776 l’espansione della produzione frenò, per riprendere successivamente alla fine dei conflitti, a partire dal 1783.

E in Oriente?
Innanzitutto va sfatato un mito: le notissime IPA, le “India Pale Ale”, non furono inventate appositamente da birrifici inglesi per essere esportate nelle Indie. In effetti erano già prodotte e consumate in patria, ma si rivelarono particolarmente adatte ai lunghi viaggi sostenuti dai mercantili britannici, tanto da acquistare la denominazione conosciuta ancora oggi. Per un periodo quelle rotte commerciali fecero la fortuna del birrificio Hodgson, che sfruttò un’esclusiva con la Compagnia delle Indie Orientali sin dagli anni ’80 del XVIII secolo, finché il mercato non fu liberalizzato. Ne approfittarono i produttori di Burton-on-Trent che puntarono proprio alle colonie inglesi in India. I birrifici locali iniziarono così a realizzare birre chiare e luppolate. Lo stile sarebbe probabilmente scomparso, come del resto tanti altri, se non fosse stato recuperato recentemente nei birrifici americani e poi “reinventato” nel resto del mondo.

Sempre in Oriente inizia la storia di un marchio che si identifica oggi con la produzione industriale iberica: nel 1890, infatti, alcuni spagnoli aprirono la prima fabbrica di birra a Manila, capitale dell’allora Capitanato Generale delle Filippine, con l’aiuto di mastri birrai tedeschi, inglobando un piccolo convento di frati agostiniani che aveva cominciato a produrre birra nel 1885: la nuova fabbrica, nel distretto di San Miguel, fu inaugurata il 29 settembre, nel “giorno di San Michele”. Man mano la San Miguel si espanse in altre zone del Sudest Asiatico. Nel 1903 arrivò a Guam, Hong Kong e Shanghai. Tra il 1930 e il 1940 era la birra più venduta in tutta l’Asia.

Ancora più in là, in Giappone, la birra arrivò nel XVII secolo, quando i commercianti olandesi con sede a Nagasaki aprirono una birreria per i marinai che lavoravano sulla rotta commerciale tra il Giappone e l’Impero olandese. Quando il Giappone si aprì al commercio estero, birre importate erano disponibili in quantità limitate negli insediamenti stranieri, ma arrivarono anche birrai addestrati dall’Europa e altrove per contribuire alla crescita dell’industria locale. La fabbrica di birra che sarebbe diventata la Kirin Brewery Company iniziò a produrre birra a Yokohama alla fine del 1869. Nel 1953 venne istituita la Brewers Association of Japan, che contribuì alla crescita della domanda di birra, tanto che negli anni ’60 per la prima volta la birra superò il sake come bevanda alcolica maggiormente consumata.
Oggi la birra è la bevanda alcolica più popolare in Giappone. La Asahi, la maggiore azienda giapponese nella produzione di birra e bibite con sede a Tokyo, in Giappone, dall’ottobre 2016 in mezzo a molti altri marchi ha rilevato anche quello dell’italiana Peroni.

In questo breve giro del mondo compaiono solo alcune delle decine e decine di storie che si potrebbero fraccontare… che a modesto parere di chi scrive, confluiscono in una raccomandazione: se viaggi, e soprattutto via mare, non dimenticarti una grande, resistente e piena cassa di birra.


Casa Fogliani è un’officina creativa nata a partire dall’obiettivo di valorizzare risorse e attività e prodotti enogastronomici d’eccellenza, con la possibilità di destinare delle risorse a uno scopo con valore sociale altrettanto eccellente: il progetto intende infatti reinvestire le marginalità realizzate dalle iniziative e con la vendita dei prodotti, tra cui due birre appositamente prodotte per conto della fondazione EDUCatt dal birrificio Argo di Lemignano di Collecchio (PR), in borse di studio, sostegno economico e servizi per studenti in estrema difficoltà.
Per ciascun anno accademico vengono attivati uno o più percorsi di laurea in Università Cattolica a favore di giovani in condizioni di estremo bisogno, di provenienza nazionale e internazionale. I beneficiari verranno sostenuti per tutto il periodo necessario al raggiungimento della laurea – fino a un massimo di cinque anni – e assistiti per agevolare l’ambientamento e lo svolgimento degli studi, con una verifica costante del mantenimento delle migliori condizioni per il raggiungimento del successo. Il sostegno prevede vitto, alloggio, vestiario, assistenza sanitaria, strumenti di studio, contributo economico per le spese quotidiane e il mantenimento, la possibilità di accedere al programma studentwork e tutto quanto è necessario per una vera accoglienza.
«Questa (non) è una birra» è la campagna che nasce per sostenere il progetto: perché la birra Clelia (una cream ale), Elettra (una amber ale) e Alma (una imperial Red in edizione limitata) sono buonissime, ma soprattutto perché acquistandole o consumandole si contribuisce da subito, e concretamente, a un progetto ad alto valore sociale.

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