Era Hitler su tutta l’Europa, e diceva: “Devono morire”
È l’autunno del 1939 quando il poeta angloamericano Wystan Hugh Auden (1907-1973) pubblica una grande poesia, in un metro volutamente popolare, come una canzone. È Refugee Blues e racconta la storia di una coppia costretta ad abbandonare la Germania di Hitler.
Non c’è più posto per loro, tra i dieci milioni di abitanti della città. La coppia fugge dalle leggi razziali e dall’Olocausto che li insegue veloce come il buio che scende poco prima della notte. Il buio, qui, non è però nel cielo ma sulla terra e denso di soldati determinati ad uccidere.
Nel nuovo paese in cui i rifugiati arrivano, pesa su di loro lo stigma dell’immigrato senza documenti, che quindi per la legge non esiste, pesa su di loro lo stigma dell’indesiderato che ruba il pane quotidiano a chi ha la cittadinanza di diritto. Non esiste un nuovo paese di accoglienza per chi non può più vivere nel paese in cui è nato. Solo gli uccelli, scrive Auden, cantano a gola spiegata. Ma perché non sono la razza umana e non sanno di politica.
La poesia di Auden ci mostra la crudeltà dell’uomo, della politica e della burocrazia che discriminano. E della guerra. In questi giorni di gennaio, vicini al Giorno della memoria, mentre cupe notizie ci arrivano dalla frontiera russa ucraina, mentre i confini dell’Europa sono attraversati da migranti brutalmente respinti, mentre il Mar Mediterraneo è sempre di più un’enorme tomba d’acqua, mentre la burocrazia restringe sempre di più le maglie attorno a un’emergenza che dura da quasi due anni, il testo di Auden accende un lumicino che illumina la mente e ci ricorda che ogni cosa è già stata, è, e potrà essere ancora se lasciamo che tutti i lumicini si spengano.
Poniamo che in questa città siano dieci milioni di anime,
V’è chi abita in palazzi, v’è chi abita in tuguri:
Ma per noi non c’è posto, mia cara, ma per noi non c’è posto.
Avevamo una volta un paese e lo trovavamo bello,
Tu guarda nell’atlante e lì lo troverai:
Non ci possiamo più andare, mia cara, non ci possiamo più andare.
Nel cimitero del villaggio si leva un vecchio tasso,
A ogni primavera s’ingemma di nuovo:
I vecchi passaporti non possono farlo, mia cara, i vecchi passaporti non possono farlo.
Il console batté il pugno sul tavolo e disse:
“Se non avete un passaporto voi siete ufficialmente morti”:
Ma noi siamo ancora vivi, mia cara, ma noi siamo ancora vivi.
Mi presentai a un comitato: m’offrirono una sedia;
Cortesemente m’invitarono a ritornare l’anno venturo:
Ma oggi dove andremo, mia cara, ma oggi dove andremo?
Capitati a un pubblico comizio, il presidente s’alzò in piedi e disse:
“Se li lasciamo entrare, ci ruberanno il pane quotidiano”:
Parlava di te e di me, mia cara, parlava di te e di me.
Mi parve di udire il tuono rombare nel cielo;
Era Hitler su tutta l’Europa, e diceva: “Devono morire”;
Ahimè, pensava a noi, mia cara, ahimè, pensava a noi.
Vidi un barbone, e aveva il giubbino assicurato con un
fermaglio,
Vidi aprire una porta e un gatto entrarvi dentro:
Ma non erano ebrei tedeschi, mia cara, ma non erano ebrei tedeschi.
Scesi al porto e mi fermai sulla banchina,
Vidi i pesci nuotare in libertà:
A soli tre metri di distanza, mia cara, a soli tre metri di distanza.
Attraversai un bosco, vidi gli uccelli tra gli alberi,
Non sapevano di politica e cantavano a gola spiegata:
Non erano la razza umana, mia cara, non erano la razza umana.
Vidi in sogno un palazzo di mille piani,
Mille finestre e mille porte;
Non una di esse era nostra, mia cara, non una di esse era nostra.
Mi trovai in una vasta pianura sotto il cader della neve;
Diecimila soldati marciavano su e giù:
Cercavano te e me, mia cara, cercavano te e me.
(Traduzione di Aurora Ciliberti, tratta da Auden, W. H., Opere poetiche, Lerici, Roma 1969)