Lingue diverse in uno stesso paese, uguale bellezza
Quanti modi ci sono di dire lingua in Italia? Più di quelli che pensiamo.
Spräch, in walser. Gjuhë in arbëreshë. Glòssa in grico. Lenga, in occitano. Lengua, in tabarchino. Recita così la quarta di copertina di un libro Stiamo scomparendo: viaggio dell’Italia in minoranza (CTRL books, 2018) che è un viaggio, dal Salento al Monte Rosa, nei luoghi del nostro paese dove l’italiano non è la lingua madre.
A ferie finite, grazie ai reportage narrativi e fotografici, possiamo andare a conoscere gli ultimi parlanti della lingua walser, nelle valli del Piemonte, gli occitani, nei territori del cuneese e del torinese. Dopo aver visto le montagne, sbarchiamo sull’isola di San Pietro, nel sud della Sardegna e sentiamo gli echi del tabarchino (non riconosciuta come lingua minoritaria) e poi in Basilicata, nei territori degli arbëreshë, emigrati, per la prima volta nel XV secolo dall’Italia all’Albania e infine in Puglia, dove sopravvive il grico, nella grecia salentina, in provincia di Lecce.
Queste esistenze linguistiche sono in bilico tra la sopravvivenza e il silenzio, ci ricordano l’incedere del tempo e delle generazioni, ci fanno prendere coscienza della nostra estrema fragilità; le minoranze linguistiche, protette dall’articolo 6 della Costituzione italiana, ci fanno ricordare che le parole possono conservare secoli di storie.
Senza la torre di Babele, a quale appiattimento culturale l’uomo andrebbe incontro?
Non è poi così necessario parlare sempre tutti allo stesso modo, ci può essere qualcuno che parla un’altra lingua ed è proprio dalla differenza che nasce il pensiero, la meraviglia e lo stupore. Sono lingue dal tono flebile, quasi non si sentono: sono lingue del cuore per chi ancora le parla, non si esercitano con l’odio, con la guerra o con il denaro, praticano, coraggiosamente, la resistenza.
La diversità, il multiculturalismo, le esperienze differenti sono una ricchezza e una bellezza insostituibile. Ci permettono di conoscere l’altro, e quindi meglio anche noi stessi. E poi, come si può avere paura dell’altro, se l’altro è dentro di noi?