Riflessioni

L’Inter è in finale di Champions League, ritorno al futuro

Una semifinale che ci riporta a vent’anni fa: era il 2003, gli Stati Uniti invadevano l’Iraq di Saddam Hussein, nel primo cassetto della scrivania c’era ancora il convertitore Euro-Lire, Totti e Hilary si erano da poco fidanzati, Valentino e Schumi erano entrambi campioni del mondo e si disputava il primo derby in una semifinale di Coppa dei Campioni. Eppure, siamo lontani dall’età dell’oro del calcio di casa nostra: il racconto di Francesco Berlucchi, giornalista dell’Università Cattolica.

Non ci sono Marty McFly e il dottor Emmett “Doc” Brown in questo film. Non c’è la mitica DeLorean DMC-12, né Johnny B. Goode a fare da colonna sonora a una delle scene più iconiche della trilogia diretta da Robert Zemeckis. La macchina del tempo, però, quella sì: anche se la musica è cambiata, è davvero un ritorno al futuro il derby di Milano in Champions League, vent’anni esatti dopo il primo derby in una semifinale di Coppa dei Campioni. Era il 2003, gli Stati Uniti invadevano l’Iraq di Saddam Hussein, nel primo cassetto della scrivania c’era ancora il convertitore Euro-Lire, Totti e Hilary si erano da poco fidanzati, Valentino e Schumi erano entrambi campioni del mondo e in radio Le Vibrazioni cantavano Dedicato a te: “Sai, certe volte accade che ci sia bisogno di andar via. E lasciare tutto al fato”. Il fato, il quel caso, volle che un doppio pareggio si potesse tramutare in un biglietto in business class per Manchester. In realtà, il merito non fu solo del destino, ma anche della capacità del Milan di sfruttare al meglio il regolamento che allora prevedeva un valore doppio per i gol segnati in trasferta. Il resto è storia: 0 a 0 all’andata, 1 a 1 al ritorno quando fuori casa giocavano i rossoneri.  

Rileggere oggi le formazioni delle due squadre certifica che il fato, quel giorno, fu solo un pretesto. L’Inter, con Hernan Crespo a mezzo servizio, dovette fare a meno anche di Bobo Vieri, che decise la qualificazione in semifinale prima che Marco Materazzi gli franasse addosso, in piena area di rigore, causandogli una distrazione del legamento collaterale mediale del ginocchio. Fu così che davanti, insieme a ValdanitoHector Cuper schierò Recoba, poi Kallon e Martins. In panchina sedevano Pasquale, Gamarra Dalmat. Il Milan, è vero, era allenato da un quarantatreenne da molti considerato “perdente” al pari dell’Hombre vertical: fino ad allora aveva vinto solo una Coppa Intertoto con la Juventus, una sorta di Confederation Cup in formato 56kbps; però in difesa schierava Costacurta, Nesta,Maldini e Kaladze, in mezzo al campo Gattuso, Pirlo e Seedorf, e in attacco Shevchenko e Filippo Inzaghi. In panchina c’erano RivaldoAmbrosini e Serginho

«La pressione che ho vissuto in quella semifinale non l’ho mai più vissuta in nessun’altra finale o semifinale», racconta Ancelotti in Stavamo bene insieme, il docufilm sull’epopea di quel Milan prodotto da Dazn l’anno scorso. Chi lo aveva frettolosamente etichettato, probabilmente iniziò a rimpiangerlo; sta di fatto che vent’anni dopo Re Carlo è ancora lì, a giocare un’altra semifinale di Champions. Questa volta, per l’ennesima volta, con il Real Madrid. Lui la corona se l’è guadagnata sul campo, e il “suo” Milan lo ha osservato a 1.583 km di distanza, quanti ne corrono tra il Santiago Bernabeu e San Siro

A Milano, nel frattempo, sventolano solo le bandiere nerazzurre. Perché questa volta è l’Inter a volare, meritatamente, in finale. Grazie a due vittorie: all’andata con un predominio schiacciante nella prima frazione di gioco, al ritorno mantenendo ancora una volta inviolata la porta di Onana (è la quarta volta di fila, in altrettanti derby vinti da gennaio a oggi) e riportando la macchina del tempo alla migliore Lu-La possibile. L’atto finale della Champions League è affare per nerazzurri, tredici anni dopo il Triplete, tredici anni dopo Josè Mourinho Massimo Moratti. Che rimangono l’allenatore al centro del cuore dei tifosi dell’Inter e uno dei simboli più puri dell’autentico mecenatismo calcistico all’italiana. Moratti è l’icona di un calcio che non esiste più, passato da tempo nelle mani di fondi di investimento internazionali, considerato periferia dell’impero nella geopolitica del pallone 4.0, eppure tornato prepotentemente ai vertici nelle principali competizioni europee. Sì, perché non ci sono solo l’Inter, pronta – come direbbe Francesco Repice – a percorrere la strada che taglia il Vecchio Continente fino alle porte dell’oriente, a Istanbul, e il Milan, tornato a disputare una semifinale di Champions dopo 16 anni. L’Europa del calcio è tornata a parlare italiano anche nelle semifinali di Europa League grazie alla Roma, fresca vincitrice della Conference League, e alla Juventus. E con la Fiorentina, in semifinale in Conference, sono cinque le squadre italiane che hanno raggiunto le semifinali nelle tre principali competizioni europee. 

Niente male, per un Paese che non portava sei squadre ai quarti nelle coppe europee dalla stagione 1998/99. Sul campo, il beneficio è netto anche per la nostra Nazionale, perché nessuno ha schierato tanti connazionali titolari nei quarti quanto l’Italia. Ma il vantaggio più evidente è nelle casse dei club: come rileva Calcio e Finanza, il bonus da 12,5 milioni di euro per l’accesso alle semifinali di Champions League ha portato gli incassi complessivi di Inter e Milan dalla Uefa rispettivamente a oltre 82 e 85 milioni di euro. Al club di viale della Liberazione, poi, vanno altri 15,5 milioni per la qualificazione alla finale, e gli introiti complessivi dalla Uefa supererebbero i 100 milioni in caso di altra impresa, a Istanbul. C’è poi il botteghino: Inter-Milan, primato assoluto di incasso nella storia del calcio italiano, è valsa quasi 12,5 milioni di euro lordi. Una cifra che permetterà all’Inter di arrivare in questa stagione a oltre 80 milioni netti di incasso, come sottolinea la Gazzetta dello Sport. Infine, gli ascolti TV, con i record di ascolti per entrambe le emittenti – TV8all’andata e Canale 5 al ritorno – che hanno trasmesso in chiaro i due match.

Eppure, siamo lontani dall’età dell’oro del calcio di casa nostra. Meglio godersi il momento, allora. Perché la mitica DeLorean non ci ha riportato tra gli anni Ottanta e Novanta, quando fummo capaci di vincere cinque volte la Coppa dei campioni, otto volte la Coppa Uefa e quattro la Coppa delle Coppe. E quando la Serie A, specchio dell’economia del Paese, attraeva i migliori giocatori del mondo. Ma ci ha proiettato in un presente inaspettatamente divertente. Soprattutto per quella sponda del Naviglio che tifa nerazzurro.  

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