Stat rosa pristina nomine
Il fatto è che dietro alle cifre, dietro alle statistiche ci sono i nomi veri, ci sono persone e storie che vale sempre la pena di ascoltare.
Il nome della rosa, uno dei bestseller più noti del mondo, tra i cento libri del secolo XX per il quotidiano Le Monde e al 21esimo posto per vendite di sempre su Ranker (uscito nel 1980 da Bompiani, in circa trent’anni avrebbe venduto tra i 50 e i 60 milioni di copie e ha contato traduzioni in 47 lingue), romanzo denso e pieno di delitti, latino e altre cose, vincitore del premio Strega del 1981, come tutti sanno inizia con una famosissima citazione di Snoopy.
Umberto Eco, il rinomato professore e semiologo passato ai più nel 2016, che aveva già pubblicato numerosi saggi con l’editrice milanese, lo scrisse quasi per gioco; voleva farne un libretto di un migliaio di esemplari: alla fine, con i proventi dei diritti d’autore dicono abbia ristrutturato un intero convento, che usò per buen retiro fino alla sua scomparsa (uno dei casi in cui carmina dant panem: ma non è cosa che càpiti a tutti, anzi proprio a pochissimi).
Il romanzo si chiude con la frase latina «stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus» che riassume, in un verso icastico, i principi del nominalismo (suonerebbe piò o meno «Resta, la rosa primigenia, con il suo nome, noi abbiamo solo nudi nomi»).
Il verso Eco lo aveva preso – lo spiega nella Postilla aggiunta al libro qualche anno dopo – dal monaco cluniacense Bernardo di Morlay, in realtà traendolo per tradizione indiretta da un libro notissimo sul Medioevo (Johan Huizinga, L’autunno del Medioevo) ma da un’edizione che conteneva un errore — «rosa» per «Roma»; ma questo è un problema diverso, per quanto affascinante, su cui si è discusso molto.
Ricorderebbe, insieme a molto altro e semplificando molto, che un concetto universale non è legato direttamente, necessariamente alla realtà ma si riduce a un fatto linguistico; ma anche che di tutto ciò che accade non resta che un nome, un ricordo, un segno.
O forse che alla fine – come recita l’Adso dell’omonimo film, che del grande amore della sua vita non ha mai conosciuto il nome – il ricordo della persona, dell’essenza, di ciò che dietro al nome stava, è indelebile.
Tuttavia, come ci dice lo stesso Eco, il titolo del libro lascia il significato all’interpretazione del lettore, che deciderà o meno di addentrarsi nel bosco della fabula: è il bello, tra l’altro, di un romanzo.
C’è da dire che, dall’Odisseo-Nessuno di Omero al Mosè del Roveto ardente della Bibbia, nelle culture basate sulla parola “conoscere” (e dare) il nome equivale a «possedere» l’interlocutore, foss’anche un dio.
In questo caso, i nomi sono l’essenza.
Peraltro, sia pure a livelli molto diversi – absit iniuria verbis — in entrambi i casi citati i protagonisti interrogati se ne escono brillantemente: Odisseo dice d’essere un oudeìs, un «non-uno», e così spera di evitarsi la vendetta (ma poi per orgoglio finisce per autodenunciarsi, con ciò che ne consegue); JHVH dice a Mosè che «è colui che è», il che spiega tutto – anche che finché non vorrà, per amore, dire il suo nome, resterà un Dio che non si può “possedere”, al di sopra di tutti quelli conosciuti prima dai popoli delle terre di mezzo.
Ancora un esempio molto diverso, e ancora un po’ di pazienza: «otto milioni di baionette» e «alcune migliaia di morti per sedersi al tavolo della pace accanto ai vincitori» sono due espedienti retorici – ahinoi poco corrispondenti alla realtà, e densi di implicazioni – che in molti conoscono: li usò entrambi Benito Mussolini; il primo a Bologna, il 24 ottobre del 1936 quando tese «un grande ramo d’ulivo che spunta da una immensa foresta […] di otto milioni di baionette, bene affilate e impugnate da giovani intrepidi cuori»; del secondo riferisce il settantaduenne Maresciallo Badoglio ai suoi demoralizzati ufficiali, il 18 ottobre 1943, attribuendolo a un colloquio col duce del 2 giugno 1940, poco prima della sciagurata entrata in guerra dell’Italia (che, per la cronaca, sarebbe poi avvenuta il 10 giugno con la lettura della dichiarazione da parte di Galeazzo Ciano, prima a un pressoché infartuato ambasciatore francese e poi a quello britannico, che restò imperturbabile).
In tutti e due i casi dietro il numero gli individui, i nomi, scompaiono, si trasformano in statistiche, neppure in ricordo: come nel famoso e terribile adagio «Una singola morte è una tragedia, milioni di morti sono una statistica» attribuito abbastanza proditoriamente (probabilmente per la prima volta dal New York Times, nel 1958), a Josip Vissarionovich Stalin.
La cosa finisce per valere per tutte le tragedie, anche per quella dei morti da Covid, che ricordiamo come parte di paurosi, tremendi bollettini quotidiani a sei cifre.
Vale anche, molto meno tragicamente, anche per le graduatorie pubbliche, per le lunghe liste di studenti che aspettano di sostenere un esame, per quelli che aspettano di sapere se fruiranno di un beneficio, per i collaboratori che attendono un compenso.
Ma dietro alle cifre, dietro alle statistiche ci sono i nomi veri, ci sono persone e storie che vale sempre la pena di ascoltare: per raccoglierle, per interagire, per raccontarle. Proprio lì dietro, oltre quei numeri ci sono vite, impegni, attese, ansie, a volte sogni: nella cronaca spesso purtroppo interrotti, in azienda più spesso semplicemente invisibili.
È che, come ci insegnano vecchi film sentimentali (uno su tutti: Qualcosa di personale, di Jon Avnet, 1996, con un fantastico Robert Redford e una sempre bravissima Michelle Pfeiffer), alla fine dietro il fatto c’è sempre da chiedersi chi sono i protagonisti: non personaggi, ma persone vere.
Che poi è una delle regole base, più spesso dimenticate, della corretta informazione e della buona comunicazione.