Codici di condotta e leggi morali
Le regole di condotta possono essere in azienda un potente strumento di comunicazione interna, come ci insegnano a diversi livelli l’esempio di McDonald’s e Ferrero, ma spesso un alto grado di attenzione a ciò che si fa e molto buon senso sono più che abbastanza.
A giugno del 2013 per Decreto del Presidente della Repubblica — allora Giorgio Napolitano, appena rieletto per il suo secondo mandato — entrava in vigore il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, che intendeva definire «i doveri minimi di diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta che i pubblici dipendenti sono tenuti a osservare». Il provvedimento attuava in realtà un articolo del decreto legislativo 30 marzo 2001, che prevedeva appunto l’emanazione di un Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni «al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali […] e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico», prescrivendo alle varie singole amministrazioni di emettere codici di comportamento specifici per settore.
Era un tentativo, previsto invero fin dal 1993, di dare delle regole per abbattere la corruzione; ma cercava anche di fornire, forse soprattutto, le chiavi per interpretare la gestione dei rapporti con il pubblico per una amministrazione più vicina ai cittadini-utenti.
Dieci anni dopo, a luglio del 2023, un aggiornamento introduce novità interessanti sull’uso delle tecnologie e dei social media (in particolare insistendo sulla cautela da utilizzare affinché le opinioni personali non siano attribuite all’amministrazione di riferimento e sull’invito ad astenersi da qualsiasi intervento «che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale») e rilancia alcune riflessioni volte a orientare il comportamento dei lavoratori alla soddisfazione dell’utente e favorire un rapporto collaborativo tra amministrazione e cittadini.
Il provvedimento insiste anche su ulteriori doveri, come per esempio quello di rispondere nella maniera più completa e accurata possibile alla corrispondenza e alle chiamate telefoniche, e precisa ulteriormente alcuni concetti espressi anche in altri articoli del codice.
Oggi probabilmente tutte le Amministrazioni pubbliche hanno emanato, e si auspicherebbe anche diffuso presso i lavoratori, un proprio Codice di comportamento: che spesso è inteso però come un codice volto a evitare, più che a costruire, cioè come una serie di regole destinate al non fare, più che all’agire; e se permette di ridurre i rischi di abuso o di corruzione d’altronde porta in sé anche il pericolo dell’immobilismo che hanno tutte le aree del “non fare”.
Tuttavia, come specifica l’Autorità Nazionale Anticorruzione nelle Linee guida in materia di Codici di comportamento delle amministrazioni pubbliche «i codici di comportamento non vanno confusi con i codici “etici”, “deontologici” o comunque denominati».
I codici di comportamento fissano infatti doveri che hanno una rilevanza giuridica; i codici etici hanno invece «una dimensione “valoriale” e non disciplinare e sono adottati dalle amministrazioni al fine di fissare doveri, spesso ulteriori e diversi rispetto a quelli definiti nei codici di comportamento, rimessi alla autonoma iniziativa di gruppi, categorie o associazioni di pubblici funzionari». Da qui la necessità che le amministrazioni tengano ben distinti i codici di comportamento, giuridicamente rilevanti sul piano disciplinare, da eventuali codici etici. Le regole di condotta entrano insomma, concettualmente – a volte anche in modalità partecipativa, cioè con la possibilità di contribuire attivamente a modificare il documento, come accade per esempio nel Comune di Milano – nell’ambito del (cercare di) “fare meglio il proprio lavoro”.
C’è insomma di più. Un codice di condotta, delle regole di comportamento o come si chiamino, può costituire uno strumento potente di comunicazione interna, finalizzato a orientare l’atteggiamento dei lavoratori in azienda spiegando gli obiettivi aziendali e l’approccio con il cliente/utente: in questo senso soprattutto sono orientati quelli di molte aziende private — e alcuni grandi gruppi hanno fatto scuola in proposito.
Spesso anche troppo, nel senso che alcune regole introducono delle rigidità che qualcuno ritiene sconfinino nella stupidità funzionale, cioè, come ricordano Mats Alvesson e André Spicer nel Paradosso della stupidità, in quel «tentativo ben congegnato di impedire alle persone di pensare seriamente a ciò che fanno al lavoro» smettendo di porsi domande cruciali su di esso.
Tanto per fare qualche esempio, da McDonald’s di Codice ne hanno uno, omiletico e propositivo, e fino a qualche tempo fa anche molto bello, da sfogliare sulla rete interna (almeno in parte è disponibile anche online su un sito dedicato), pensato per aiutare in quelle situazioni in cui «non è immediatamente chiaro che cosa è giusto e che cosa è sbagliato» ed è perciò necessario «valutare che cosa sia nel superiore interesse di McDonald’s». Si intitola Standard di condotta aziendale e il sottotitolo recita, molto allusivamente, La promessa degli archi dorati.
A tutti i lavoratori dell’azienda viene richiesto di prenderlo a riferimento, sin dal primo giorno di lavoro, e di essere consapevoli che in ogni azione “rappresentano” McDonald’s, e devono «dare il massimo per sostenere la reputazione del marchio. Il successo dipende dall’accettare la responsabilità personale a fare la cosa giusta» (per la verità, il seguito specifica anche che «i dipendenti che violano la legge o gli Standard di Condotta Aziendale sono soggetti ad azioni disciplinari, che possono arrivare al licenziamento»).
In McDonald’s hanno anche un ufficio per la conformità globale e la sicurezza, che aiuta a «capire quali sono le responsabilità legali ed etiche che riguardano l’attività lavorativa di ognuno».
È un (eco)sistema dettagliatissimo, uno standard che consente di eseguire il proprio compito con un numero molto limitato di azioni, che si svolgono “esattamente” nel modo prescritto. Funziona perfettamente.
A qualcuno fa persino un po’ paura, tanta propensione al controllo: per complessi di istruzioni così dettagliate, che rischiano di portare all’omologazione delle risorse umane, un po’ di tempo fa il sociologo George Ritzer parlava di Mcdonaldizzazione.
All’altro capo del filo, in maniera e con uno scopo probabilmente del tutto diversi Michele Ferrero, sotto la cui guida l’azienda di famiglia si trasformò – con la Nutella, tra l’altro – in un’impresa in grado di superare i confini e aprirsi al mondo, affisse in una bacheca all’interno dello stabilimento di via Vivaro, ad Alba, 17 regole rivolte ai responsabili dei reparti, che prendevano avvio ricordando innanzitutto l’importanza dell’interlocutore, ma esortavano soprattutto a preoccuparsi di ascoltare, di «agire sulle cause più che sul comportamento», di considerare «i problemi nel loro aspetto generale senza perdersi nei dettagli» e lasciare ai dipendenti un certo margine di tolleranza senza chiedere loro cose impossibili.
Forse è un’altra storia, ma le regole ricordavano anche «che un buon capo può far sentire un gigante un uomo normale, ma un capo cattivo può trasformare un gigante in un nano», e si spingevano ancora più in là; Ferrero chiudeva il suo informale “codice di condotta” aggiungendo: «se non credete in questi principi, rinunciate ad essere capi».
La verità è che non ci sono regole, non ci sono codici di comportamento aziendali o standard di condotta che tengano: avere presente il punto di vista dell’altro, prestare attenzione agli atteggiamenti e alle proprie parole, immaginare che persino una offerta di aiuto – se troppo insistente o rivolta senza riflettere su ciò che si dice – possa essere letta negativamente dal nostro interlocutore, è soprattutto una questione di buon senso.
La sfida è fare in modo che il codice di condotta non sia necessario; che all’avviso di disservizio improvviso si preferisca – con fatica, con difficoltà, con organizzazione – trovare una soluzione che venga in soccorso; che a chi richiede qualcosa sbagliando ufficio, toni e tipo della richiesta non si abbai contro, anche senza che un manuale lo prescriva.
Avremo in questo caso, senza scomodare Kant, obbedito alla legge morale del cercare di far meglio anche solo – come uno degli Aureliano Buendía – la cottura dei ceci, e sarà stato comunque abbastanza.