Ibis, redibis non. L’educazione, come una virgola, può cambiare la storia
Mandela ne parlava come dell’arma più potente. Il Festival internazionale dell’educazione di Brescia, promosso dall’Ateneo, l’ha presentata anche come il dono più prezioso che possiamo fare alle nuove generazioni.
Ricordate il responso della Sibilla cumana al soldato che la consultava sull’esito della propria missione militare? «Ibis redibis non morieris in bello» gli disse, con tono che più “sibillino” di così non poteva essere, anche perché, com’è noto, il latino non prevede punteggiatura. Il soldato partì rassicurato, convinto di “andare, ritornare e non morire in guerra”. Ma la virgola, purtroppo per lui, andava collocata dopo il “redibis non” e il poverino cadde in battaglia.
Quel piccolo segno – assunto a icona dalla prima edizione del Festival internazionale dell’educazione, promosso a Brescia dall’Università Cattolica insieme ad altri soggetti del territorio e riuscito a mettere in dialogo quasi 6mila persone su un tema tutt’altro che facile – è una minuzia, quasi un accidente, tanto che nella lingua dei social e nella fretta della messaggistica istantanea è considerato da molti un inutile orpello perditempo. Eppure, come dimostra l’aneddoto della Sibilla, quel piccolo segno può cambiare il significato di una frase, di una vita, della storia.
Accade lo stesso nella grammatica delle relazioni, che sono il legame invisibile che ci fa persone e ci rende umani. “Siamo tutti sulla stessa barca”, disse nel momento peggiore della pandemia papa Francesco, con un’espressione rimasta nella memoria di tutti. A significare un’appartenenza che ci accomuna, una storia che ci lega, un’identità che si costruisce solo in dialogo con l’alterità.
Sono le relazioni a fare la differenza. Perché sono quel tessuto che non si vede ma che rende possibile vivere insieme. Con-vivere da umani. Spiega il preside di Scienze della formazione Domenico Simeone, direttore scientifico del festival: «Nel pieno del Covid la pandemia segnò profondamente le nostre città, costrette all’improvviso a fare i conti con il limite e la precarietà, che hanno eroso i legami sociali e i rapporti tra le generazioni». Da dove è stato possibile ripartire? Dall’unica risorsa che può ricostruire la rete delle relazioni spezzate: l’educazione. «È uno straordinario strumento di cambiamento, che con il suo potere trasformativo permette di rigenerare il tessuto connettivo delle nostre città, offrendo l’opportunità di costruire quella fitta trama di rapporti che creano comunità che educano» (“Comunità educative” è stato il tema della prima edizione).
È la cronaca a dimostrarci che non sono solo parole. «La povertà educativa e la mancanza di cura nelle relazioni – afferma il preside Simeone – portano i giovani a mettere in atto comportamenti inadeguati, devianti, violenti, che conducono alla sopraffazione e al non rispetto dell’altro, preparando il terreno fertile per il degrado e la criminalità, come abbiamo visto nelle tante Caivano d’Italia». C’è chi pensa di rispondere a queste “emergenze” evocando punizioni esemplari e strette alle regole, schieramento dell’esercito e “bonifiche” esibite a favore di telecamere. O chi, con uno stucchevole gioco delle parti, fondato più sulla simmetrica reazione che sulla reale convinzione, invoca il bisogno di educazione, scuola e famiglia, scordandosene regolarmente una volta scampato il pericolo.
È urgente, invece, dice il professor Simeone, «allacciare un patto tra le generazioni e trovare adulti che sappiano assumersi le proprie responsabilità educative, per permettere ai ragazzi di vedere realizzati i propri desideri e i propri sogni. L’educazione, infatti, è il dono più prezioso che possiamo offrire ai giovani che stanno crescendo».
Aveva ragione Nelson Mandela, quando diceva, con una frase che tutti citano, ma che pochi praticano: «L’istruzione è l’arma più potente per cambiare il mondo». Se c’è una chiamata alle armi da fare, proprio mentre soffiano in diverse regioni del mondo terribili venti di guerra, è quella a un grande investimento sull’educazione. Brescia, capitale italiana della cultura con Bergamo 2023, il suo esercito, senza divisa e senza fucili, l’ha schierato: prima di tutto rialzandosi dall’emergenza Covid, che l’ha ferita ma non piegata, uscendone migliore perché ha riscoperto che, come direbbe Tolkien, “le radici profonde non gelano”, tanto nel terreno educativo che in quello della solidarietà. La sua lunga storia di pensiero e azione in ambito pedagogico, che affonda nell’800, ne ha fatto una “città dell’educazione”, in grado di rispondere alle emergenze globali e locali e di offrire speranza anche al resto del Paese.
Ma Brescia ha imbracciato quella pacifica “arma” anche con questa prima edizione del Festival dell’educazione. Potendo considerarsi a pieno titolo, parola di Domenico Simeone, «un laboratorio pedagogico per l’Italia intera». Scoprendosi, così, capitale due volte: della cultura e dell’educazione.
Nella foto in alto: alcuni dei bambini 0-6 anni protagonisti di uno dei laboratori del Festival dell’educazione, accolto dal Museo del Risorgimento nel Castello di Brescia. La proposta nasce da un progetto che propone i musei come luoghi di contrasto alla povertà educativa, utilizzando gli ambienti della cultura per promuovere messaggi di inclusione, senso di comunità, dialogo tra persone e generazioni.