Comunicazione

«Loro lo sanno come si chiamano» (sulla scrittura responsabile delle e-mail)

Scrivere una email, se vogliamo che sia letta, richiede un piccolo sforzo di immaginazione nel metterci nei panni di chi riceve il messaggio, e soprattutto il rispetto del destinatario: qualche minuto di tempo in più può fare la differenza tra la lettura e il cestino.

Se ci arriva una mail che inizia con «Caro» (o «Cara») e il nostro nome proprio, tendiamo ad aprirla più di quanto non faremmo se quello stesso mittente ci inviasse una mail senza intestarla. O almeno questo è ciò che dicono le ricerche di marketing che invitano a personalizzare i messaggi massivi.
Pare funzioni ugualmente se il messaggio inizia con un più familiare «Ciao» seguito dal nome: i “tassi di apertura”, cioè le volte che un destinatario apre un messaggio, e presumibilmente lo legge, migliorano esponenzialmente. Fa niente se scopre dopo una riga che l’argomento non gli interessa, che non si tratta di un messaggio personale ma di una promozione generica: il mittente avrà guadagnato, almeno statisticamente, una certa attenzione. (Si fa per dire: dovremmo chiederci ancora prima se è il caso di inviarla, una comunicazione di questo tipo).

Se però il nome è diverso da quello del destinatario, o contiene un errore, l’attenzione si alza ancora di più: ma ne segue un fastidio che indispone, insospettisce o allarma.
Il fatto è che, come in tutte le cose, anche per le e-mail è bene fare attenzione fin dall’inizio, cioè dall’oggetto e dalla formula con cui si apre il messaggio. Il che vale più in generale per qualsiasi comunicazione, tanto più se scritta e con valore legale, si tratti di una mail formale o di uno scambio informale, e persino di un contenuto promozionale.

L’oggetto

È importante innanzitutto che la mail abbia un oggetto vero, ad anticipare per quanto possibile l’argomento di cui si tratta, così come che d’altra parte l’oggetto non contenga intero il messaggio: la riga del subject non riempita così come il corpo del testo vuoto non aiutano, e anzi fanno correre il rischio che il nostro messaggio venga filtrato dai sistemi automatici di cui ormai ogni fornitore di servizio – da Google a Microsoft ad Aruba – e praticamente ogni azienda sono dotati.

L’apertura

Ma poi si passa alla formula di apertura del testo, che come in ogni buona lettera richiede una riflessione sul destinatario e su come vogliamo porci nei suoi confronti: iniziare una e-mail senza un’intestazione, un appellativo o un saluto — al di là dell’educazione — può funzionare nel caso di una conversazione colloquiale, ma (quasi) mai in ambito lavorativo, e non aiuta il destinatario a capire da subito “a chi” effettivamente il suo interlocutore si sta indirizzando.
Dall’altro lato, specificare il cognome e il nome (indipendentemente dall’ordine) del destinatario, trasforma la comunicazione in un atto amministrativo, la burocratizza, e rischia di indisporre il corrispondente — che lo sa, come si chiama — sin dall’inizio.

Proviamo, sempre, a metterci nei panni altrui: «Ciao» è un saluto molto impegnativo, come sanno tutti i cavalieri medievali, ma prelude al “tu” e a una confidenza che dobbiamo assicurarci di avere; «Caro» presuppone almeno una conoscenza; «Gentile» accompagnato dal cognome o dal nome (basta uno solo dei due) garantisce anche l’indeterminatezza opportuna nel caso in cui non avessimo una conoscenza diretta del nostro interlocutore; «Gentilissimo», «Gentilissima» innalzano il livello formale della conversazione, e hanno il vantaggio di non richiedere i titoli del corrispondente, il che è utile soprattutto se non ne abbiamo contezza. «Salve» invece è — non dimentichiamolo — una seconda persona (suonerebbe come «mi auguro che tu stia in salute» o « ti auguro di essere in salute»): possiamo usarlo anche verso qualcuno cui diamo del lei, ma presuppone una certa familiarità; se non siamo certi o se preferiamo un tono di saluto neutro forse possiamo usare un «Buongiorno» o «Buonasera», tenendo presente che il destinatario potrebbe leggere il nostro messaggio in un momento diverso, ma che fa fede il momento di invio, un po’ come una volta il timbro postale.

A ciascuno, se lo conosciamo, il suo titolo: in ogni caso è bene, pur se normale nel parlato, evitare le abbreviazioni (prof, cav, magari senza punto): non fa piacere, e ha il sapore dell’approssimazione; e del resto come vorreste essere apostrofati da qualcuno che magari non conoscete?

Esiste, in verità, una nomenclatura precisa, che in alcuni casi è d’obbligo conoscere, anche solo per romperla o per usarla senza imbarazzo: a un vescovo o un arcivescovo diamo dell’«Eccellenza», così come a un questore o a un prefetto, a un cardinale dell’«Eminenza» (entrambi sarebbero anche «reverendissimi»), al Papa «Santità»: per questo, che ci crediamo o meno, si tratta di un titolo onorifico, che spetta anche a Dalai Lama, Aga Khan e alle altre massime autorità religiose; per un principe o un reale (ne esistono ancora) il titolo è “Altezza”.

«Spettabile» è solo un ufficio, che in genere però è fatto di persone: possiamo metterlo in indirizzo (una volta era sulla busta, per intenderci), meno in apertura:
se non sappiamo chi c’è dall’altra parte un «Gentili signori» o un «Gentilissimi» funzioneranno forse meglio, e saranno sufficienti a riscaldare un po’ di più la conversazione.

Un deputato è «Onorevole», come un senatore o una senatrice; «Magnifico» è solo un rettore, e «Chiarissimo» soltanto un professore che abbia titolo (in senso stretto, e senza offesa, un ricercatore è ancora «dottore»; diventerà chiarissimo dopo il concorso o l’incarico di piena docenza). Un preside sarebbe «Amplissimo», ma la forma è ormai abbastanza negletta. Se l’interlocutore possiede più titoli va bene utilizzare solo quello più alto.

Agevolare la lettura

Qualche altro piccolo accorgimento: personalizzare il tipo di carattere può corrispondere ai nostri gusti e rappresentare al meglio il nostro ego, ma non è detto che un corsivo renda il testo anche leggibile; non dimentichiamo poi che usare le parole in maiuscolo significa URLARE e che le maiuscole di cortesia, soprattutto all’interno di parola, sono ormai desuete (“salutarLa”); moltiplicare i segni di interpunzione o i punti di sospensione (tre, se proprio dobbiamo usarli, racchiudono tutti gli altri e sono più che sufficienti), infine, non renderà il nostro messaggio più incisivo, forse solo meno perspicuo.

In chiusura

Pensiamo bene ai saluti: «Distinti» non fa un bell’effetto, anche questo sa di burocrazia; se l’interlocutore è noto va bene se sono «cordiali» (possiamo usare anche un più informale «Cordialmente»). Ma più che altro è importante che ci siano, i saluti, quando ci si congeda; un po’ come non voltare le spalle senza salutare al termine di una conversazione.

Infine c’è la firma: va sempre messa, preferendo il nome e il cognome soprattutto se l’interlocutore non ci conosce, seguendo il modello aziendale se esiste, per aiutare a essere rintracciati.
Se abbiamo familiarità con il destinatario va bene anche soltanto il nostro nome di battesimo; firmarsi con il cognome prima del nome è come scrivere rùbrica; non firmarsi affatto o farlo con il nome della funzione cui si appartiene “disumanizza” il messaggio ed è piuttosto antipatico, in fondo, oltre che scomodo per chi ci legge.

Per il resto di titoli, appellativi, regole e suggerimenti ce ne sono per tutti i gusti: si tratta solo di non essere approssimativi; di fare, in fondo, un po’ di attenzione per ottenerla dall’altro lato: l’obiettivo, teniamolo a mente, è innanzitutto che il nostro destinatario la legga, la mail.

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