Caring Company, quando metterci il cuore è un affare
Cosa sono le Caring Company? Sono le aziende improntate a un nuovo modello di business, in cui l’attenzione alle persone porta risultati e profitti: così i lavoratori che, nel privato, devono prendersi cura di un familiare diventano una ricchezza e la capacità di trasferire le competenze da un ruolo all’altro il vero valore aggiunto.
È di qualche anno fa, ma non per questo meno affascinante, un report dal titolo “The Caring Company” (Harvard Business University, 2019) che porta alla luce una percentuale altissima di dipendenti – il 73% degli intervistati nello studio – impegnati, nel privato, a prendersi cura di una persona cara: per molti di loro i servizi messi a disposizione dalle organizzazioni sono spesso poco utili e dunque sottoutilizzati, quasi offerti per lenire il problema della cura, che appunto rimane un problema. Ciò di cui si ha più bisogno è allora un cambiamento culturale di questa dimensione di cura: le persone desiderano infatti essere considerate per intero, nella complessità dei tanti ruoli che rivestono nella loro esistenza senza ridursi al ruolo, sostanzialmente produttivo, che si riveste in azienda.
Non solo, secondo l’intuizione di Riccarda Zezza – founder e Ceo di Lifeed, la società di education technology a impatto sociale che ha progettato il modello di Caring Company e riconosce come tali le imprese che lo adottano – transizioni di vita come l’essere genitori o l’assistere un familiare fragile si possono trasformare in vere e proprie competenze professionali, ovvero in quelle soft skills oggi ritenute cruciali per navigare la dimensione di permanente incertezza del futuro. Lo dimostra anche uno studio universitario (Family Caregiving Skill: Development of Concept, Usa 2000) che evidenzia come prendersi cura delle persone adulte sviluppi ben 63 competenze, che spaziano dal trovare risorse al risolvere problemi, all’organizzare persone e soprattutto allenino l’empatia, soft skill sempre più preziosa. Allo stesso modo i figli insegnano a negoziare ed esercitano costantemente la comunicazione assertiva, per esempio quando li convinciamo che ciò che stiamo dicendo è vero e può essere condiviso, abilità preziosa anche sul luogo di lavoro. Avere consapevolezza di questo patrimonio rafforza le persone in modo importante e favorisce la transilienza, ovvero la capacità di trasferire le competenze da un ruolo all’altro della vita, per esempio dal ruolo di madre e padre al ruolo di manager, ma anche viceversa.
Agire con il cuore, dunque, è conveniente e prendersi cura è valore un aggiunto, forse intangibile ma non per questo meno reale: in EDUCatt – come recita la mission formulata “dall’interno” da un gruppo di lavoro già nel 2009 – centrale è il valore delle persone che, a diverso titolo, collaborano al progetto di cui l’Ateneo ha investito la Fondazione, costituendo così una realtà dove la persona viene prima del ruolo e il ruolo non è mai riducibile all’impiego in organico, l’entusiasmo del fare viene prima del lavoro, in una comunità in cui tutti sono importanti e necessari a svolgere con creatività e spirito di servizio un ruolo che è innanzitutto di accoglienza e accompagnamento. Si tratta di un vero e proprio «capitale umano», un valore che di rimando va coltivato attraverso la vicinanza costante dell’Azienda per incontrare esigenze e aspettative dei singoli e aiutare a compiere al meglio la dimensione lavorativa individuale.
Il proposito non è da poco, ma quando si guarda al lavoro con il cappello della cura, da entrambe le parti, ci si rende maggiormente conto che il come lo si fa ha un’influenza sull’organizzazione e, in genere, sul mondo: di conseguenza, si opera in maniera differente per sé, per l’organizzazione e per le generazioni che verranno.