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Gli scrittori e la città, più che altro di periferia

Tra cibo e vino, in una pausa tra un viaggiare e un altro si parla di letteratura e scrittori, ricercando tra le pagine di qualche libro lo spirito multiforme di Milano, una città che accoglie più di quanto non si creda, che ospita e adotta da sempre, in cui persino la nebbia di periferia ha lasciato (a volte) il posto al design.

In un evento di qualche tempo fa, organizzato dal brand solidale Casa Fogliani in Ristorante.9 a Milano alla vigilia dell’inizio di questa estate in cui l’Italia è divisa tra nuvole e caldo, si è parlato delle città, e in particolare dello “spirito” (o meglio degli spiriti: un gioco di parole fin troppo facile, tra Campari e Amaro importante Jefferson, che di anime ne hanno molte) di Milano. È stata un’occasione gradevole per assaggiare le creazioni dello chef Dell’Edera insieme a una selezione di vini, e per trascorrere una serata tra fotografie (quelle belle, di Andrea Aschedamini per different.photography che sono anche un libro) e amici, ma anche per un po’ di letteratura.

Era il provvisorio ritorno da un viaggio lungo, di quelli che a Michel Le Bris e agli Étonnantes voyageurs di Saint Malo sarebbero piaciuti; ed è stata occasione per ritrovare, in un percorso arbitrario, ma non privo di una certa logica, una città internazionale, a metà tra storia e presente, con periferie una volta nebbiose e oggi piene di sole e proiettate (almeno in alcuni casi) perfino al design. Una città che, al di là delle apparenze, ti accoglie senza chiederti spiegazioni, come ricordava Edilio Rusconi («Non ha fiumi, non ha mare. Milano è un luogo d’incontro, un antico crocevia perpetuato nei secoli. Un posto dove tutti hanno doppia cittadinanza: quella d’origine, mai umiliata, e quella milanese, concessa con semplicità»), scrittore prima che ricco editore, tra molto altro dell’ormai introvabile Casamento 84 (Rizzoli), ambientato nella (allora) periferia popolare di via Poma.

Sarebbe stato facile partire, in una piccola casuale rassegna, dal Testori cantore del Dio di Roserio (Feltrinelli, adesso 2018) o del Ponte della Ghisolfa (Feltrinelli, 2013), o dal passeggiare di Alberto Savinio di Ascolto il tuo cuore, città (Adelphi), o anche dal milanesissimo (d’adozione, come praticamente tutti) Dino Buzzati di Un amore, o dall’ingegnere in blu Carlo Emilio Gadda (milanese sempre, ma per ambientazione almeno dalle Meditazioni milanesi all’Adalgisa), oppure da Giuseppe Marotta (A Milano non fa freddo, Mal di galleria, Le milanesi), Riccardo Bacchelli, Giuseppe Pontiggia, Elio Vittorini, Mark Twain, Giovanni Verga, o ancora da Umberto Eco (Numero Zero), Giorgio Fontana (Morte di un uomo felice), Alda Merini, Gianni Biondillo, Andrea De Carlo, Aldo Nove, Franco Loi, Giorgio De Chirico, Alberto Lattuada eccetera, e finire in un elenco – una volta si diceva telefonico — in cui sarebbe mancato sicuramente qualcuno.

Ma no, l’avvio s’è preso un po’ a caso, o meglio a gusto, da un classicissimo come Ernest Hemingway (Addio alle armi) che pochi ormai sanno essere stato ospite dell’ospedale americano, in via Armorari – nei pressi di piazza Cordusio – dove oggi una targa ricorda l’amore per Agnes e la nascita di uno dei grandi romanzi del Novecento.

Tra una degustazione e l’altra, si sarebbe voluto citare Vlodymyr – più noto come Giorgio Scerbanenco, (Venere privata, Traditori di tutti), che della periferia di Milano, nebbiosa e grigia come i crimini di cui racconta, restituisce un’immagine in cui si avverte perfino l’umido e il freddo; ma si è parlato poi, come succede nei chiacchiericci migliori, di tutt’altro: di Vincenzo Consolo (Milano, vecchie e nuove migrazioni) e Raffaele Crovi (Carnevale a Milano), entrambi studenti – almeno per un certo periodo – in Università Cattolica, entrambi alloggiati in Collegio Augustinianum, entrambi con ricordi vividi della Caserma Garibaldi che in piazza s. Ambrogio (allora una periferia in pieno centro) accoglieva i tram senza numero dei migranti scesi dai treni del sud e diretti a un futuro di speranza, lavoro e a volte tragedia.

Tra l’altro quella Caserma, al tempo di Consolo e Crovi il centro di accoglienza migranti più grande della penisola, l’Università Cattolica la sta trasformando in campus universitario, in qualche modo continuando la sua vocazione di ateneo destinato ad accogliere studenti di tutta l’Italia e dall’estero, nuovi migranti – in condizioni ben diverse da quelli che arrivavano allora, ma sempre con le stesse facce per un momento sperdute davanti alla città.

In Cattolica insegna oggi Giuseppe Lupo, Ordinario di letteratura italiana contemporanea, che con Gli anni del nostro incanto (Marsilio) attraversa Milano sul filo della memoria, anche personale, in un libro premiato tra l’altro con il Viareggio; e nella stessa Università lavora come direttore della Comunicazione Alessandro Zaccuri, che in una novella godibile ci riporta a una periferia malfamata insospettabilmente collocata dietro al duomo e alla lingua di un giovane Alessandro Manzoni, in quel Poco a me stesso (Marsilio) che su consiglio di Helena Janeczek è tra l’altro entrato nella dozzina dello Strega del ’22.

Qualcuno tra i tavoli fa notare che manca almeno una citazione di Alessandro Robecchi, giornalista, autore televisivo e scrittore, che col suo Monterossi (Sellerio) si muove in una Milano da sottobosco tra il Corvetto e piazza Selinunte, e qualcosa del più lontano Umberto Simonetta, un po’ dimenticato paroliere di Gaber e autore della trilogia dello Sbarbato (Parenti, 1961), che a leggerlo pare di avere davanti il Cerutti Gino della canzone ancora famosa. Ma tant’è, s’è già detto, l’antologia è del tutto arbitraria.

Al dolce, come per contrappasso l’accompagnamento è affidato alle parole di Luciano Bianciardi (La vita agra), ma per chiudere con un’immagine di quando succede «che in città arrivi il vento, un vento senza odore e senza nome. Arriva non sai da dove, anzi da ogni parte […], e per qualche ora ti sembra di esserti messo gli occhiali, il disegno delle case si fa netto, i lumi a sera brillanti, vedi persino le stelle, e il Monte Rosa dal terrazzino. Due, tre volte all’anno vedi il cielo longobardo, così bello quando è bello».

Si va via satolli, con qualche libro e vini in borsa – quelli assaggiati in serata, che era possibile acquistare in cassa: tra foto e pagine s’è disvelata una città che a volte sembra sottrarsi agli sguardi «tranne che se la cogli di sorpresa» (Italo Calvino, le città invisibili).

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