Comunicazione

Retorica, registri e scarto culturale

Lo «scarto culturale» è un presupposto di base, spesso dimenticato, della comunicazione: sia che si costruisca una frase o si scriva un testo per un discorso pubblico, avere presente il distacco invisibile che passa, in tutti i casi, tra la cultura dell’emittente e quella del destinatario può aiutare a fare la differenza tra comprensione e malinteso.

C’era un tempo in cui si parlava di «scarto culturale», riferendolo sociologicamente al logoramento delle idee, spesso nate dall’industrializzazione, inconciliabili e tuttavia dure a morire; soprattutto chiuse.
Qualcuno pensava che sarebbe stato possibile con la tecnica e la scienza, ma sulla base della solidarietà, “aprire” la società e dinamicizzarla, rendendola più facilmente disposta ad accettare l’altro e il nuovo (M. Vianello, Lo scarto culturale, Laterza, Bari-Roma 1966).

Ora che la scienza e la tecnica si sono spinte molto più avanti, se la società non si è aperta e non è diventata più solidale (e anzi spesso sembra chiudere le porte al nuovo, come del resto accade in ogni momento di crisi), la comunicazione ha mostrato invece la sua dinamicità, evolvendosi in forme perfino irriconoscibili a distanza di pochi anni (basti pensare ai social che evolvono se stessi e continuano a mutare, per non parlare della progressiva personalizzazione dei media).

I presupposti di base, questi sì, sono però immutati: tra gli altri quello, spesso dimenticato, che è sempre necessario tenere presente lo «scarto culturale» tra parlanti, o tra emittente e pubblico di riferimento: cioè quella differenza di estrazione, di formazione, di nozioni comuni e in fondo di interpretazione della realtà che viene utilizzata da ciascuna persona – per lo più inconsapevolmente – sulla base della propria cultura per prendere le decisioni e dare o meno il consenso a un’affermazione.

È una dinamica chiara a chiunque abbia fatto parte di un team internazionale, ma spesso anche a chi si trova a confrontarsi con colleghi provenienti da altre parti del mondo: per quanto la lingua dei comunicanti sia comune, vi sono aspetti (per lo più intangibili) che vanno tenuti presenti, persino nella concezione del tempo da dedicare o in cui svolgere un compito, o per l’orario da rispettare per un appuntamento. Come ricorda Erin Meyer – la nota studiosa americana che insegna a Parigi e che dal 2017 è nella classifica dei 50 pensatori più influenti del mondo – nel bel libro intitolato La mappa delle culture (ROI, 2021), «i membri di un team internazionale spesso nutrono sul processo decisionale aspettative basate sulle norme delle proprie culture […]. Peggio ancora, la maggior parte di noi non è nemmeno consapevole del sistema che la nostra cultura usa per prendere le decisioni. Seguiamo semplicemente lo schema senza pensarci – e questo pone anche le nostre reazioni sulla difensiva nei confronti di approcci alternativi più difficili da gestire».

Come per altri aspetti della disciplina, probabilmente un buon inizio è quello di cercare di indossare i panni altrui, tenendo in considerazione le differenze che passano tra il mittente e il destinatario dell’informazione anche mentre si formula una frase: soprattutto oggi, quando il vocabolario dei parlanti si riduce sempre di più. Nella famosa orazione che il logografo Lisia compose – siamo ad Atene, nel 403 a.C. circa – per la difesa di un invalido accusato di non essere davvero inabile e che rischiava perciò, a torto o ragione, di perdere il sussidio di invalidità, lo sforzo dell’autore è quello di adeguarsi a uno stile «compatibile» con l’accusato, che quell’orazione avrebbe dovuto pronunciare dinnanzi ai giudici della Boulè: una lingua scarna, colloquiale, a tratti zoppicante; ma in realtà sorvegliatissima, non priva di elementi ironici e di artifici retorici. Una lezione preziosa, che permise all’invalido probabilmente di trarre ragione ma che soprattutto dimostra come sia utile per un professionista «entrare nei panni» dell’interlocutore: in questo caso non solo di colui che avrebbe perorato la causa (l’invalido, appunto), ma anche di coloro che lo avrebbero ascoltato.

Non si tratta di appiattire la comunicazione, ma anzi di prendersi il tempo di scegliere con cura le parole, spiegando cosa si sta dicendo (o chiedendo) per disinnescare le possibili incomprensioni.
Tra l’altro, cercare di ridurre i fraintendimenti spesso aiuta a porre le basi per una collaborazione migliore, oltre che a limitare i conflitti. E certamente genera dei testi più accurati; «funziona meglio».

Vale anche per prendersi la briga di rileggere una richiesta o una mail prima di inviarla e riflettere su ciò che si scrive, magari confrontandosi con un buon vocabolario (ne esistono molti online, così come parecchi sono i traduttori ormai ben raffinati, grazie al supporto delle IA, nel caso in cui vi fosse la necessità di esprimersi in una lingua diversa da quella madre) se il termine giusto non venisse proprio immediatamente alla mente.

Che produciamo testi per un pubblico più ampio o anche per un solo corrispondente, la sfida è quella di cercare di adeguare il nostro registro linguistico – il tono, le parole e tutto ciò che ne consegue – ai destinatari, senza per questo perdere la nostra identità e senza impoverire la comunicazione.

È uno sforzo per l’«esattezza» – la chiarezza, spesso anche la concisione – che, anche senza arrivare alla raffinatezza delle Lezioni americane di Calvino (un libretto ricchissimo di spunti, che dai professionisti della comunicazione andrebbe letto forse più spesso; tra gli altri contenente la riflessione che «la letteratura [e forse solo la letteratura] può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio»), richiede certamente impegno e probabilmente un po’ di tempo in più di quanto ne impiegheremmo per una comunicazione irrifilessa, ma che vale certamente la pena.

Lo diceva anche David Ogilvy, uno dei padri della pubblicità moderna, che la pensava come «un mezzo di informazione, un messaggio» e non «come una forma d’arte»: tra i suoi “comandamenti” vi è innanzitutto l’invito a pensare al consumatore e come il consumatore, parlando la sua lingua e spiegando, bene, tutto ciò di cui ha bisogno.
In fondo, ancora oggi l’interlocutore è tua moglie (o tuo marito; Ogilivy scriveva in un mondo in cui i pubblicitari erano quasi esclusivamente uomini che si rivolgevano ad acquirenti donne). Non dimenticarlo.

EDUCatt EPeople