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«Non abbiate paura»

La paura delle implicazioni del comunicare può essere bloccante per un’organizzazione e far perdere fiducia agli interlocutori. Non avere timore, ma ponderare le conseguenze fino ad anticiparle può aiutarci, alla fine, a rendere il nostro messaggio più penetrante (o almeno chiaro quanto basta perché arrivi agli interlocutori).

In un bel film del 2017 (The Post), diretto da Steven Spielberg, si racconta dei «Pentagon Papers», un caso che scosse l’opinione pubblica americana nel mese di giugno del 1971 e che in qualche modo fu alla base del successivo Watergate: uno studio di quasi 7.000 pagine, commissionato dal Governo, rivelava il reale stato di fatto sulla Guerra del Vietnam e gettava luci sinistre sul coinvolgimento degli Stati Uniti in quell’evento e sul sacrificio di una generazione di giovani soldati.
I documenti, dal titolo US-Vietnam Relations, 1945-1967: History of US Decision Making Process on Vietnam Policy, erano stati tenuti segreti; fotocopiati da uno degli estensori, giunsero prima al New York Times e poi al Washington Post. Il presidente Nixon cercò di bloccarne la pubblicazione, ma il NYT (dal 13 giugno) e Il Post (18 giugno) ne iniziarono la diffusione invocando il primo Emendamento della Costituzione, e la Corte suprema diede loro ragione.
Il film mette in evidenza le difficoltà, i dubbi e i timori dell’allora proprietaria del Post, Katharine Graham interpretata da una sempre strepitosa Meryl Streep, che si è trovata inaspettatamente, dopo la morte del padre e il suicidio del marito, alla guida del giornale e che in un momento difficile è costretta a valutare i rischi e le implicazioni che la pubblicazione dei documenti comporterebbe per l’azienda, e ad agire di conseguenza. Con l’appoggio del suo direttore Benjamin “Ben” Bradlee – interpretato da un burbero e convincente Tom Hanks – Katharine Graham decide per la pubblicazione, anche contro i consiglieri più attempati che le suggeriscono – quasi vogliono imporle – la prudenza, e alla fine i fatti le danno ragione.
È una riflessione innanzitutto sulla libertà di stampa, ma anche sull’opportunità di pubblicare o meno un’informazione.

Senza arrivare a questa criticità, può capitare infatti di dover riflettere sulla diffusione di informazioni, più o meno importanti: sui media, agli stakeholder, al pubblico di riferimento ma anche ai colleghi; perfino al proprio gruppo di lavoro.

Ecco, quello è il momento in cui, indipendentemente dalla posizione che si ricopre in azienda, non è il caso di avere paura, ma anzi è necessario valutare attentamente pro e contro, e scegliere.
Nella maggior parte dei casi si tratta di scegliere non «se» ma «che cosa» (o meglio ancora «come») dire.
Non è che non si possa fare: ma scegliere di non dire su un fatto, scegliere di non diffondere una informazione di cui si dispone deve essere un’azione ponderata – e da certi punti di vista più ponderata della scelta contraria – con la consapevolezza che quando quella notizia diverrà pubblica per altri canali (oh, state certi che prima o poi lo diverrà; oggi è impossibile che, prima o poi, una notizia non venga fuori, magari distorta) o vorremo effettivamente diffonderla potremmo ottenere delle reazioni più scomode di quelle che abbiamo allontanato, momentaneamente, grazie al nostro silenzio.
Potremmo anche dover rettificare, a quel punto, un’informazione che non abbiamo governato in uscita, con un alto rischio di effetti indesiderati.

Il presupposto essenziale, un po’ diverso dal dire o non dire, è comunque di non nascondere mai: non paga, da Nixon in giù (ma anche prima); nella migliore delle ipotesi comporta una perdita di fiducia negli interlocutori, che poi è molto difficile recuperare.

Siamo indulgenti con il nostro lavoro di confezione: le conseguenze di una certa imprecisione sono tollerabili, se la sostanza ne guadagna in chiarezza.
Come per la soglia del rumore, l’approssimazione – di una campagna di comunicazione, di un numero, di un aspetto secondario di un fatto, come già detto altrove – che permetta di raggiungere il destinatario è del tutto giustificata, in alcuni casi persino positiva; in qualche occasione è persino l’unica maniera per farsi comprendere: che alla fine è l’obiettivo, come sempre, di una buona comunicazione.

Un buon inizio? Ricordiamoci della sostanza, teniamo a mente l’argomento principale, raccontiamo mentre stiamo facendo, facciamo ammenda se abbiamo sbagliato: per lo più ne guadagneremo in alleanza con i nostri interlocutori. Non lasciamoci sommergere dalla paura delle conseguenze della nostra comunicazione; proviamo a immaginarle e, se possibile, a prevenirle.

EDUCatt EPeople