Comunicazione

A ciascuno il suo (titolo)

Di titoli e appellativi ce ne sono moltissimi; attribuire quello giusto attesta la cortesia di chi lo dà, più che quella di chi lo riceve, portarli è soprattutto un impegno, spesso di servizio.

Nella memorabile scena iniziale del film “The Godfather” che apre una delle trilogie più famose della storia del cinema, un sontuoso Marlon Brando ricorda al suo interlocutore – il «beccamorto» di nome Buonasera – che pur avendone battezzato la figlia questi non lo ha mai apostrofato col titolo che gli spetta; la scena, per certi versi dal significato terribile, si chiude con Buonasera che finalmente chiede, esitante «Mi volete amico… Padrino?» e don Corleone che risponde soddisfatto con un secco «Good».
È un appellativo cui Vito Corleone sembra tenere molto, e che più avanti verrà spiegato diffusamente anche dall’avvocato di famiglia, Tom Hagen. Ha un significato di «rispetto» dovuto a chi lo porta, in una distorta visione dell’onore che conosciamo benissimo purtroppo al di là di molto cinema.

In realtà, come molti altri appellativi, benefica soprattutto chi lo dà, attestando il rispetto verso l’interlocutore, prima di chi lo riceve. Nel caso citato, apre a Buonasera le porte amicali della casa del Padrino; più frequentemente – e di solito molto meno pericolosamente – il titolo di cortesia attesta innanzitutto la cortesia, appunto, di chi lo utilizza. Perciò, per quanto spesso li si confonda con un moto servile, i titoli e i corrispondenti appellativi del “trattamento d’onore” si possono utilizzare senza farne un dovere assoluto ma piuttosto una questione di buone maniere. Spesso poi mettono l’interlocutore, soprattutto in apertura della lettere scritte, in una disposizione positiva e consentono di avvicinare meglio il discorso al corrispondente.
Di elenchi ne esistono a bizzeffe, a volte con una nomenclatura che dovrebbe aiutare a orientarsi per distinguere «chi è chi» (o meglio che cosa rappresenta; in Gran Bretagna, dove all’etichetta tengono molto da sempre, hanno anche un libro molto famoso che si pubblica dal 1849 e che dal 1996 è diventato un prodotto digitale; oggi ne è editore la Oxford University Press) e diventa invece fonte di maggior confusione.
Ma un titolo sbagliato non è poi gran cosa, se l’attribuzione è sincera.

Titoli religiosi

L’istruzione Ut sive sollicite della Segreteria di Stato Vaticana nel 1969 ne ha aboliti alcuni e ne ha reso altri facoltativi, ma resta il fatto che un sacerdote, o un frate che sia anche presbitero regolare possiamo chiamarlo «Reverendo [padre]», e «Molto Reverendo» se è anche parroco, «Reverendissimo» se è un abate; una suora è, corrispondentemente, «Sorella» o «Reverenda madre» se badessa, priora o superiora di un ordine; un monsignore – titolo che può essere conferito anche a un prete diocesano, e non solo a un vescovo – è ugualmente «Reverendo», ma diviene «Reverendissimo» se fa parte di alcune categorie particolari, come gli ufficiali dei dicasteri della Curia romana o gli uditori della Sacra Rota. Lo stesso monsignore, se diviene vescovo va apostrofato con l’appellativo di «Eccellenza (Reverendissima)», e con quello di «Eminenza» (sempre «Reverendissima») se ascende alla porpora cardinalizia. Nella chiesa riformata, qualora servisse, ricordiamoci però che i vescovi restano «monsignori». Il papa, il patriarca ecumenico ortodosso e, che ci si creda o meno, anche il Dalai Lama e l’Aga Khan, sono «Sua Santità»; ma un altro Patriarca della Chiesa orientale è «Sua beatitudine» (per questi non preoccupatevi: almeno dagli anni Cinquanta andrà bene anche «Eccellenza reverendissima»).
Ah già: tornando ai sacerdoti, il titolo di «don» – da dominus – è quello più generico; è apparentato a «dom» – che i più conoscono per un famoso champagne – riservato agli abati, in particolare benedettini, certosini e trappisti.

Titoli civili e nobiliari

I titoli nobiliari in Italia sono stati soppressi dalla XIV disposizione transitoria della Costituzione: non che siano stati vietati, ma più semplicemente non vengono più riconosciuti e sono indifferenti di fronte allo Stato (era accaduto anche in Germania nel 1919, in Irlanda dal 1937, ecc.; i Francesi, forse è superfluo aggiungerlo, li avevano già aboliti, insieme a molto altro, nel 1790). Esiste tuttavia una titolazione di cortesia, che può essere utilizzata nei confronti di nobili e titolati stranieri: da quella riservata a Re e Regine («Sua Maestà»; il titolo spetta anche all’unico imperatore ancora regnante al mondo, quello del Giappone) a quella dei principi («Sua altezza», in Inghilterra e Spagna anche «reale» se è riferita a uno dei figli del monarca; viene utilizzato anche per i duchi, membri della famiglia reale).
Per gli altri è più facile: per marchesi e conti sarà sufficiente un più semplice «Eccellenza», abbandonando i desueti «Grazia» e «Signoria».

Oggi, per particolari benemerenze verso la Nazione, il Presidente della Repubblica può concedere onorificenze al merito a singoli cittadini, italiani e stranieri (lo fa abitualmente il 2 giugno e il 27 dicembre di ogni anno) che possono così fregiarsi del titolo di Cavaliere, Ufficiale, Commendatore, Grande Ufficiale e Cavaliere di Gran Croce. I titoli possono sommarsi, nel caso di benemerenze acquisite successivamente al conferimento dell’onorificenza precedente, ma si comincia sempre dal primo grado, quello di Cavaliere.

Il titolo «Onorevole», consueto nell’uso comune per riferirsi a deputati e senatori eletti nelle assemblee rappresentative italiane, in realtà non è mai stato formalizzato e proviene da una prassi della Camera subalpina istituita nel 1848. Oltre che per i consiglieri regionali del Parlamento siciliano, il termine è usato anche nei confronti degli eletti dell’Europarlamento.

Nei confronti dei Prefetti e dei membri della Corte di Cassazione viene utilizzato diffusamente l’appellativo di «Eccellenza»: se non lo si utilizza tuttavia non si sbaglia, anche perché in effetti nel 1945 ne era stata disposta la cessazione senza che il decreto fosse poi convertito in legge (anche prima, in verità, più d’una volta se n’era fatto il tentativo). Il Presidente Napolitano, nel 1996, decise di cancellarlo dalle sue lettere, insieme alle maiuscole di cortesia, e ancora qualche anno fa alcune proposte di legge ne hanno chiesto l’esplicita abolizione a favore di un più semplice signore/signora.

Titoli accademici

Qui orientarsi è più facile, ce ne sono meno: Un professore universitario (ordinario, straordinario, emerito e onorario) è «Chiarissimo», titolo derivante dall’attributo nobiliare di età romana; ma in molte Università l’appellativo viene sostituito con un più generico «Egregio» o «Gentile», che tra l’altro aiuta se non si conosce precisamente lo status del docente cui ci si rivolge: se fosse un ricercatore, più o meno confermato, il titolo giusto sarebbe quello di «Dottore». Il Preside di facoltà è invece «Amplissimo», ma questa forma è ancora più desueta della prima. Il Rettore, o la Rettrice di un ateneo è invece «Magnifico/a».

Titoli militari

Tra i militari, abitualmente nel riferirsi o nel rivolgersi ad altro militare è necessario indicare il grado o la carica, seguita o meno dal cognome; nel rivolgersi ad un superiore, ufficiale o sottufficiale, si fa precedere l’indicazione del grado o della carica o del cognome dall’appellativo «signore». Le singole Forze armate hanno consuetudini proprie per l’appellativo «Comandante».

Ce ne sarebbe ancora, e c’è da perdersi; come sempre il buon senso, al di là dell’etichetta, permette di districarsi più facilmente di come sembri possibile. Senza dimenticare che in fondo il titolo è innanzitutto un impegno per chi lo porta o lo riceve: come ha ricordato papa Francesco nella lettera inviata ai 21 nuovi cardinali nominati nell’autunno del 2024, è più importante tenere «occhi alti, mani giunte e piedi nudi» e fare in modo che «il titolo di “servo” (diacono) offuschi sempre più quello di “eminenza”».

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