Tutti facciamo errori
Si può lottare contro gli errori, con la consapevolezza che è impossibile non commetterne. Ammetterlo e cercare di correggerli o di mitigarne gli effetti può essere una interessante lezione e consentirci, qualche volta, persino qualche scoperta.
Un vecchio adagio recita che «Ogni tanto anche il buon Omero dormicchia» (Quandoque bonus dormitat Homerus, Hor Ars poet., 358-59): non nascondiamocelo, che l’errore è sempre in agguato; interpretativo, formale, anche soltanto ortografico.
Parliamo più che altro degli errori involontari, non delle notizie false o costruite ad arte: anche questa categoria richiede però una verifica che – è uno dei paradossi dell’età dell’informazione – in un sovrabbondare di informazioni diventa difficile, sia per la disponibilità di tempo che per la difficoltà di cernere, tra verifiche su fatti veri e ammissioni di colpevolezza nascoste, dati di fatto che siano davvero attendibili.
Si apre uno scenario sconfinato, come ai pionieri le praterie dell’ovest nordamericano: ma quelle erano verdi e rigogliose – e apparentemente inabitate e a disposizione, peraltro un errore storico le cui conseguenze sono purtroppo ben note –, questo può finire per somigliare di più al prosciugarsi di un lago, quando ciò che rimane è solo fanghiglia.
Ce n’è per tutti: dal banale, inevitabile refuso che nel migliore dei casi è innocuo ma nel peggiore cambia il senso di una frase, all’errore interpretativo, a quello di traduzione al vero e proprio travisamento, fino alla costruzione di un contenuto del tutto falso.
Oggi l’attenzione si concentra più spesso sugli errori costruiti (più o meno) ad arte, che raccontano una realtà alternativa (o post-verità, che l’Oxford Dictionary ha persino eletto a parola dell’anno nel 2016): richiedono una attività di fact-checking e di debunking – cioè essenzialmente di controllo puntuale dei fatti – costante, e possono assorbire risorse importanti, perché la ricerca dell’errore è faticosa. Qualche volta, però, dà soddisfazione, e magari permette di scoprire il color malva (il primo pigmento del tutto artificiale della storia, che ha rivoluzionato molta produzione industriale e che fu scoperto per caso da un giovane ricercatore che cercava di sintetizzare il chinino).
Errori e correzioni
Secondo uno studio di qualche tempo fa pubblicato da un professore dell’Università dell’Oregon, Scott R. Maier, e riportato da Stephan Russ-Mohl, a sua volta professore di media e giornalismo all’Università della Svizzera Italiana (entrambi collaborano con l’European Journalism Observatory), il 61% dei servizi e degli articoli di giornale contiene errori, sia fattuali che interpretativi.
La tendenza è simile sia negli Stati Uniti che in Europa, ma in America sui giornali si tende a correggere d’abitudine i propri errori nei «correction corners», apposite sezioni dei giornali dedicate all’argomento.
Non che qualcuno abbia particolare fiducia nel fatto che lo strumento funzioni: una correzione, una smentita hanno sempre meno evidenza dell’errore che le ha generate, e spesso non servono a correggere l’opinione ormai indirizzata; ma sono un buon viatico per conquistare, o mantenere, la fiducia di chi legge.
Qualcuno ne ha fatto addirittura (quasi) un’arte; è il caso di Ian Mayes, difensore civico del londinese Guardian. I suoi errata corrige sono divenuti esemplari, tra umorismo e attenzione alle conseguenze che un errore può provocare: quando sul suo giornale non sono comparse rettifiche, Mayes ha rassicurato i lettori imputando il fatto «a un guasto tecnico, e non ad un improvviso accesso di infallibilità giornalistica».
È del resto un’affermazione che si applica a tutti i campi della comunicazione: anche in editoria, ad esempio, con buona pace di Manuzio e di tutti gli appassionati professionisti che per un attimo lo hanno creduto, il libro perfetto non esiste. Il che non significa che non si possa tendere a cercare di farlo, un prodotto esente da sviste, almeno formali: con la consapevolezza che nel complesso percorso che porta un testo a diventare pubblico succede, e sfugge, sempre qualcosa.
L’errata corrige, un rimedio tipicamente stampato subito dopo che il libro ha davvero appena finito la sua fase di produzione, lo insegna.
Rimedi di coscienza o «teriaca del villano»
In un tempo non troppo lontano si pensava che l’aglio fosse un rimedio buono per tutto (la «teriaca del villano»); le sue capacità antinfiammatorie sono note, e fa effettivamente bene a molto; si paga però il prezzo di effetti che fino a qualche anno fa venivano associati a cucine di alcuni Paesi con una certa sufficienza e un certo disprezzo.
Come con l’aglio, probabilmente il rimedio più efficace a un errore è l’ammissione di colpevolezza, che lascia in bocca però un sapore cattivo.
Si tende a fuggirne, spesso, a colpi di menzogna, il che tuttavia trasforma invariabilmente la riparazione in un guaio peggiore.
Come ricorda Gianrico Carofiglio in un godibile volumetto che riflette sulla questione (Elogio dell’ignoranza e dell’errore, Einaudi 2024), «l’errore è una delle forme del nostro pensare e del nostro agire. […] I più bravi sono quelli capaci di fallire rapidamente, con eleganza e senza conseguenze, che sanno usare l’errore e il dubbio come strumenti di lavoro».
Non resta quindi che cercare di ridurne il numero o almeno gli effetti più evidenti: in redazione esistono dei metodi apposta, dalla doppia lettura alla ricerca e al controllo delle fonti; ma, forse è superfluo affermarlo, purtroppo si tratta di sistemi che richiedono tempo e risorse, entrambi oggi fattori che in azienda si tende a ridurre.
Certo, anche senza andarne sistematicamente a caccia (James Reston, un giornalista per lungo tempo al New York Times, suggeriva di «andare sempre in cerca di chi è insoddisfatto»), si può cercare di verificare – almeno prendendosi il tempo di un attimo – la fonte di un’affermazione, di una campagna, persino di una frase che diventa un claim, cioè lo slogan che accompagna una pubblicità: copiare involontariamente, attribuire una citazione alla persona sbagliata, commettere uno strafalcione nella sintassi o nell’ortografia in una parola straniera sono inciampi che possono fare la differenza tra il guadagnare la fiducia dei nostri lettori e il perderla spesso definitivamente.
Peggio ancora, almeno allo stato attuale della tecnologia, affidarsi all’intelligenza artificiale dandole credito pieno di verità o chiedendole di autocorreggersi (è stato fatto, con effetti a volte paradossali e risposte che è possibile – per curiosità – sperimentare): parrebbe che in mancanza di risposte certe alle domande poste inventi di sana pianta delle «allucinazioni» e che poi finisca per crederci e ritenerle vere, purtroppo inevitabilmente.
Controllare, e poi ancora, e soprattutto servirci dello studio e dell’esperienza degli errori commessi già in precedenza – ricordiamoci che se c’è un “buon” errore qualcuno lo avrà certamente commesso prima di noi – può aiutarci in ogni caso a evitare che lo sbaglio diventi strutturale, che è l’unico effetto davvero in grado di invalidare l’iniziativa migliore.
È vero in comunicazione, come più genericamente in ambito decisionale.
Non possiamo avere la pretesa, dunque, di estinguere l’errore dai nostri atti e dalla nostra comunicazione; ma alla fine, forse, saremo in grado di essere più indulgenti quando troveremo un difetto sull’elegante menu del nostro Ristorante o sulla copertina dell’ultimo libro di cui abbiamo curato la redazione (come nella migliore delle tradizioni è accaduto, l’errore in copertina, proprio alla traduzione italiana del Verification Handbook, la guida per la verifica dei contenuti digitali curata da Craig Silverman e redatta per l’Italia da SlowNews, un progetto che da anni si occupa di riflessioni e approfondimento giornalistico e che ha raccontato anche di questo errore), e sapremo sorriderne con la consapevolezza, comunque, di avercela messa tutta.