Dire quasi la stessa cosa
Esercitare l’arte della traduzione “senza cambiare la lingua”, cioè adattare il discorso tenendo in considerazione le differenze culturali di mittenti e destinatari. Un esercizio difficile, che può apparire banale, ma può evitare qualche incomprensione.
Dicono che quando gli olandesi acquistarono l’isola di Manhattan dagli indiani Lenape per 60 fiorini e alcune perline questi non avessero capito bene di che cosa si trattasse, e che non immaginassero che «l’isola dalle molte colline» – un luogo sacro, in cui si svolgevano cerimonie, e che a nessuno sarebbe venuto in mente di coltivare – sarebbe diventata Fort Amsterdam, poi Nieuw-Amsterdam e infine New York.
Non comprendevano proprio la nozione di acquisto e vendita, atti che finivano per loro per non avere alcun significato, dal momento che non concepivano la proprietà come intesa dai colonizzatori: gli olandesi dicevano “comprare”, i Lenape si guardavano con aria attonita, e ancora più attoniti furono dopo, quando i litigiosi coloni iniziarono a disboscare, recintare, bruciare.
La storia parrebbe essere resa ancora più complicata dal fatto che gli olandesi in realtà trattarono l’acquisto dell’isola dai Canersee, una tribù che utilizzava l’estremità sud di Manhattan come riserva di caccia senza rivendicare alcun possesso su quei luoghi, che non informarono i compratori che il resto dell’isola era occupata dai Wecquaesgeek, una banda ostile di indiani Wappinger; ma non è necessario sottilizzare: è in ogni caso un triste inizio per la grande mela, ed è solo uno dei numerosissimi malintesi che segnarono l’epoca delle scoperte.
Per fare un altro esempio, Cvetan Todorov (La conquista dell’America. Il problema dell’altro) racconta che il nome della provincia dello Yucatán, «simbolo per noi di esotismo indiano e di lontana autenticità, è in realtà il simbolo dei malintesi che regnavano allora. Alle esclamazioni dei primi spagnoli sbarcati sulla penisola, i maya rispondono: Ma c’ubah than (non comprendiamo le vostre parole). Gli spagnoli, fedeli alla tradizione di Colombo capiscono “Yucatán” e decidono che deve trattarsi del nome della provincia».
Si tratta in questo caso di una tradizione raccolta da leggende più o meno diffuse, e spesso ripetute in altri contesti (come la storia del termine «canguro», che gli inglesi di Cook avrebbero mutuato dagli aborigeni senza capire che alla domanda di indicare il nome di quel curioso animale questi rispondevano di non aver capito, «kangaroo», appunto), in molti casi “troppo belle per essere vere”, come ricorda David Wilton che ne raccoglie alcune in Word Myths: Debunking Linguistic Urban Legends (OUP, 2004).
Gli esempi mostrano molto dell’incomprensione possibile tra culture diverse e dei difetti della «traduzione»: tuttavia, è bene specificarlo, non si tratta qui soltanto di un problema di lingua, né dell’inganno dei falsi amici, che tutti sanno come — metaforicamente o meno — vadano tenuti a distanza; a creare il fraintendimento è proprio il passaggio della comunicazione da una cultura a un’altra che, attenzione, potrebbe essere quella del destinatario che abbiamo di fianco, del nostro collega o del nostro vicino di scrivania, che dalla sua cultura potrebbe essere portato a interpretare il nostro messaggio secondo codici lontanissimi dai nostri.
È banale, ma come in altre occasioni è la differenza di lingua e di cultura che dobbiamo tenere presente quando costruiamo una campagna di comunicazione, quando troviamo un claim che ci piace o anche soltanto quando costruiamo una lettera o un testo più o meno formale, andando incontro al destinatario senza snaturare la nostra comunicazione.
Un gioco difficile, tra semplificazione e complessità, perché la «traduzione» del messaggio dovrebbe essere, come dice Norman Shapiro, un traduttore americano citato da Anna Aslanyan in un volumetto molto gradevole, «come una lastra di vetro. Si nota che c’è solamente quando ci sono delle piccole imperfezioni», il che è vero innanzitutto quando la lingua della «traduzione» non cambia.
È più un auspicio, in realtà: senza arrivare a salvare vite né a costruire religioni, come racconta Romolo G. Capuano in 111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo, per lo più può bastarci evitare quel che paventa l’interprete (Nicole kidman) protagonista di un famoso film di Sydney Pollack del 2005: «Countries have gone to war after misinterpreting one another».