Comunicazione

C’è rumore e rumore

Da suono disturbante a strumento di comunicazione e generatore di traffico social, il rumore può essere utilizzato come una strategia di breve periodo che però rischia di mostrare, inesorabilmente, i suoi effetti negativi anche su chi lo genera.

Il rumore è correntemente inteso come un suono o un insieme di suoni che si può udire nel silenzio o che si distingue da altri suoni. È spesso legato a sensazioni sgradevoli e, quando ancora i bambini giocavano nei cortili, nelle strade o nei vicoli, s’alternava al chiasso (un altro concetto interessante, che qualche etimo riporta alle adunate d’esercito) nelle raccomandazioni sollecite e nei rimbrotti di madri, mogli e portinai: i bambini moderavano per qualche attimo lo schiamazzo, e a restare era un fondo indistinto che disturbava, ancora un poco, il sonno di infanti o di operai che si preparavano al (o recuperavano) lavoro notturno e i nervi fragili di uomini e donne.
È, quest’ultimo, un fenomeno che non esiste praticamente più, nostalgicamente sostituito da disturbi – altri rumori, appunto – che non sempre rompono il silenzio, ma impediscono ugualmente, in molti casi, il sonno.

Uno è sicuramente il crescere, frequente e ripetuto, di informazioni e notizie (vere o false, importa poco; è più frequente però che siano false: è più facile produrle e attirano, spesso, di più che quelle vere), inviti e chiamate all’azione che finiscono per far scomparire, come sotto una coltre pulviscolare di rifiuti tritati, l’informazione essenziale, quella che effettivamente ci serve.

In comunicazione, teorizzato almeno dal finire degli anni Quaranta, il rumore è da intendersi come una interferenza che causa una distorsione del messaggio durante la trasmissione (è la teoria matematica di Shannon-Weaver, due ingegneri che avevano l’obiettivo di rendere più efficace la comunicazione fisica e insistevano sull’attenzione al canale), fino a sovrastare il messaggio e impedire la comunicazione stessa.
Può essere fisico, esterno, ma anche endogeno e addirittura intenzionale.
Lo si contrasta, abitualmente, alla fonte con la ridondanza, cioè con la ripetizione. Ovviamente, ciò accade se alla fonte interessa che il messaggio venga trasmesso: ma in parecchi casi, in realtà, è la generazione stessa del rumore che costituisce il contenuto; talvolta, la ridondanza è essa stessa rumore.

Qualche esempio. Più di 46 notizie in quattro giorni all’inizio del 2025 emesse dall’area della Casa Bianca degli Stati Uniti e dal Presidente Trump, in un coacervo che alternava minacce a decisioni bellicose o anche soltanto a dichiarazioni destituite di qualsiasi fondamento, si sono rivelate estremamente difficili da seguire puntualmente per tutti i media – tradizionali e non – che tengono dietro alla politica americana, e ancora più difficili per le parti politiche: a cominciare da quella avversa al partito di Trump, che si è trovata in difficoltà nel cercare di prestare attenzione a una valanga di questo tipo per controbattere, come accade abitualmente in USA, punto su punto.
“La zona è stata inondata” consapevolmente, per usare un’espressione che il consulente della prima campagna di Trump nel 2016, Steve Bannon, aveva già allora teorizzato, riferendosi ai media dell’opposizione: «Tutto quel che dobbiamo fare è inondare la zona: noi dobbiamo colpirli ogni giorno con tre cose; loro tengono dietro a una e noi – bang bang bang – facciamo tutto quel che dobbiamo. Non riusciranno mai a starci dietro».

È una strategia sporca, quella di elevare la soglia del rumore, che dà i suoi frutti: utilizzata copiosamente dallo staff di comunicazione presidenziale nei primi 100 giorni del nuovo mandato, ha messo in difficoltà tutti gli oppositori, e qualche volta anche gli alleati.
Qualcuno, come la parlamentare democratica Alexandra Ocasio-Cortez, ha provato a ripulire il campo, richiamando l’attenzione verso un controllo delle azioni essenziali della presidenza, ma con risultati non paragonabili alla deflagrazione: le notizie e i provvedimenti spazzatura – alcuni palesemente falsi, altri rientrati, cancellati o sospesi – hanno consentito di portare avanti attività che altrimenti avrebbero trovato un’opposizione ben più ostica.
Elevare la soglia del rumore, “agitare il cane”, può essere dunque una strategia che dà risultato.
Qualcuno ha provato a utilizzarla anche in Italia, con risultati alterni – non è una strategia complessa, ma richiede mezzi, per una sistematicità in grado di fare massa, non sempre facilmente accessibili.

Non è neppure una strategia nuova. Alcuni pensano che sia stata utilizzata consapevolmente, in un caso “di scuola”, anche dalla Nuova Camorra Organizzata quando nel 1983, sulla base delle dichiarazioni di un pentito – poi risultate del tutto infondate – il presentatore Enzo Tortora, noto al grande pubblico alla pari di Mike Buongiorno, Corrado e Pippo Baudo e ideatore tra molto altro della trasmissione Portobello che al tempo era seguita quasi dalla metà della popolazione italiana (26 milioni di spettatori), venne tratto in arresto e detenuto per sette mesi.
Le dichiarazioni, allora, sarebbero state confermate da altri “pentiti” con lo scopo preciso di creare clamore mediatico e innalzare la soglia del rumore, appunto.
A farne le spese il presentatore, che solo nel 1987 poté tornare in video con la famosa frase «dunque, dove eravamo rimasti»: ma il danno era stato fatto: tra l’altro Tortora da quell’accusa infamante e da ciò che ne era seguito aveva ricavato un male che lo portò alla morte nel 1988 (su questa tragica storia la figlia di Enzo Tortora, Gaia, ha in anni recenti pubblicato il libro Testa alta, e avanti (Mondadori 2023: https://www.mondadori.it/news/enzo-tortora-40-anni-dopo-l-arresto-il-racconto-della-figlia-gaia/).

Per fare un altro esempio, un po’ più leggero, in editoria o sui giornali si parla di moltiplicare il rumore intorno al testo, aumentandolo non solo in termini di decibel (quella che Gillo Dorfles nel libro Horror pleni chiamava l’[in]civiltà del rumore), ma anche col ricorrere a stratagemmi indiretti come i fattoidi, cioè fatti costruiti secondo verosimiglianza, che integrano la realtà o inventano dal nulla episodi inesistenti per catturare il pubblico (una polemica, un’intervista doppia, “pezzi di colore”, ecc., di diverso tipo e livello culturale, come ricorda Ugo Volli nel suo Nuovo libro della Comunicazione).

Il fatto è che innalzare la soglia del rumore, ahinoi, volontariamente o involontariamente, oltre che incrementare l’inquinamento — ebbene sì, esiste anche un inquinamento da comunicazione, e i suoi riflessi sono molto reali: pensiamo soltanto alla quantità di energia necessaria a produrre e gestire la mole di notizie false emesse nell’esempio americano — significa anche aumentare il rischio di danno collaterale, o comunque di generare effetti che più difficilmente saremo in grado di controllare: l’effetto desiderato potrebbe essere raggiunto, ma qualcuno potrebbe farne le spese; magari meno tragicamente di quanto accaduto a Tortora, ma allo stesso modo con conseguenze che alla lunga potrebbero riverberarsi, molto negativamente, sulla nostra comunicazione.

In una scena iconica del film I predatori dell’arca perduta, Indiana Jones finisce per sparare a un avversario che con grande clamore e un gran seguito di folla lo minaccia roteando una scimitarra, chiudendo di botto una «conversazione poco interessante». Pare che Harrison Ford, che impersona l’archeologo avventuriero più romantico della storia del cinema, avesse un gran malessere quel giorno, e che con quella scena non prevista nel copione avesse voluto metter fine al rumore. Appunto.

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