Cantare la Resistenza
Su una delle più note piattaforme musicali compare una playlist antifascista, e il suo ascolto, in prossimità del 25 aprile, suscita la curiosità di approfondire il legame tra musica e Resistenza: da un dattiloscritto del 1975 riemerge la storia di una generazione e la necessità di creare qualcosa che rispecchi la lotta per la libertà, valore da difendere e da portare con sé.
La musica, ben oltre il semplice intrattenimento o l’espressione artistica, si è rivelata storicamente un potente strumento di lotta: un’arma sonora capace di risvegliare coscienze, unire intenti e sfidare l’oppressione. Attraverso melodie evocative, ritmi incalzanti e testi densi di significato, ha accompagnato, alimentato e amplificato le voci di chi ha lottato — e lotta ancora — per un cambiamento sociale e politico.
Dalle ballate popolari che narravano le gesta di eroi ribelli e denunciavano le ingiustizie, fino ai canti di lavoro intonati nei campi e nelle fabbriche, la musica ha avuto un ruolo cruciale nel tramandare la memoria delle lotte passate e nell’ispirare quelle future. Quei canti, oltre ad alleviare la fatica quotidiana, rafforzavano il senso di comunità e la consapevolezza di una condizione condivisa.
Durante i momenti di conflitto e resistenza, la musica ha assunto un significato ancora più profondo. Inni nazionali, canti partigiani e canzoni di protesta sono diventati simboli di identità collettiva, strumenti di propaganda e mezzi di mobilitazione.
In molti casi, i canti non sono nati come pezzi originali ma sono adattamenti di motivi già esistenti. Questo fatto, considerato il contesto di produzione, nel mezzo del pericolo quotidiano causato dalla guerra, non deve stupire, così come la trasformazione mitopoietica di cui le canzoni sono state oggetto in seguito.
Il bacino di raccolta è dei più disparati: si passa dalle canzonette di consumo agli inni militari, alle melodie del movimento operaio. Aggiungere le parole più adeguate alla necessità a una melodia già esistente è più economico che dover inventare tutto da zero. D’altra parte, durante la resistenza tutto è riutilizzato e rifunzionalizzato: le cascine diventano basi di comando e ricoveri, vecchi fucili da caccia si trasformano in fucili da guerra, soldati regolari diventano ribelli e alle vecchie arie si dà nuovo fiato: Fischia il vento, il terribile canto dei partigiani rossi, si basa su un’aria sovietica, mentre l’altrettanto feroce Pietà l’è morta rielabora un canto alpino della Prima guerra mondiale.
In almeno un caso, però, la storia andò diversamente, come racconta il partigiano Carlo Domenech in un dattiloscritto del 1975, oggi conservato presso l’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria (ISRAL).
Si è nel marzo del 1944 quando nelle zone montane dell’Appennino ligure e piemontese, attorno alla cima modesta del Monte Tobbio, fu composto il canto Dalle belle città (Siamo i ribelli della montagna) dai partigiani del 5º distaccamento della III Brigata Garibaldi “Liguria”, stanziati alla cascina Grilla con il comandante Emilio Casalini, detto “Cini”.
Dalla memoria di Carlo Domenech: «Ad un certo punto noi giovani sentiamo la necessità di creare qualcosa che parli di noi e della nostra generazione, che esalti la Resistenza e rispecchi la lotta che stiamo conducendo. Sarà la nostra storia e racconterà le dure vicende della vita partigiana e gli ideali che ci animano. Su questi presupposti, Cini prende l’iniziativa e un giorno inizia a scrivere delle parole su un foglio di carta da imballaggio. Dopo qualche giorno, la bozza è pronta. Nel distaccamento c’è un giovane studente di musica, Lanfranco, a cui viene affidato il testo. Durante il servizio di sentinella sul monte Pracaban, porta con sé le parole, e al ritorno ha già composto la melodia, vergata su un pezzo di carta da pacchi».
Il testo celebra le montagne, luoghi aspri, aridi, impegnativi, dove tuttavia la libertà esiste, in contrapposizione alle città tradite e in mano al nemico. La libertà, d’altra parte, è complessità e la vita «di stenti e di patimenti» anche se spaventa è sopportata se si ha nella mente il futuro. Dalle case, dalle scuole, dalle officine i giovani si mutano in ribelli, seguaci di una nuova etica, di ideali di giustizia, di partecipazione, di diritti che questi nostri giorni sempre più oscuri minacciano di dissolvere.
Cantare ancora oggi, in questo 25 aprile, le canzoni della Resistenza significa rendere omaggio a chi è morto per la libertà, e ricordarci ogni anno quanto abbiamo ancora bisogno di quella stessa forza che vive tra le strofe — per non abbassare mai la testa e difendere, sempre, la nostra libertà.